Forse un’opera è davvero completa solo quando si rovina
O così almeno dice il pittore e scultore tedesco Anselm Kiefer, che su questa massima ha fondato la maggior parte delle sue opere. Opere fragili, deperibili, carnefici e vittime allo stesso tempo della propria disfatta. Kiefer è solo uno dei tanti artisti contemporanei che sfruttano a loro favore ciò che viene chiamato in gergo inherent vice. All’interno del sistema dell’arte esiste tale problematica che sta assumendo sempre più rilevanza: un vizio di forma dell’opera stessa per cui quest’ultima è inevitabilmente destinata a deteriorarsi con il passare del tempo a causa della sua natura materiale.
Questo è un problema che riguarda in particolar modo l’arte contemporanea, dato l’utilizzo sempre più massiccio di materiali completamente naturali o addirittura scarti biologici. Sarebbe però riduttivo affermare che riguardi unicamente il periodo della contemporaneità, punto di vista che deriva probabilmente da un’analisi parziale del fenomeno, che non prende in considerazione una visione più ampia, che abbraccia invece l’intera storia dell’arte. Basti pensare a qualsiasi quadro di epoche passate – dal Medioevo al Rinascimento fino ad arrivare alla pittura Ottocentesca – che ha avuto necessità di essere restaurato a causa del deperimento naturale del supporto o dei pigmenti di colore.
Media, esperienza sensibile e percettiva
Il concetto di supporto è una tematica costantemente al centro di numerose teorie da parte di studiosi, teorici e filosofi dei media. Per quanto la parola media possa sembrare recente e si pensa riguardi solo l’era digitale, in realtà per gli studi di cultura visuale è un concetto vecchio come il mondo, le cui prime teorie risalgono addirittura ad Aristotele, dato che con media si intende qualsiasi mezzo che permette l’esperienza sensibile e percettiva. Ogni corrente di pensiero ha una sua diversa concezione di supporto, ma fondamentalmente ci sono due punti di vista contrapposti: chi pensa che la sopravvivenza dell’opera sia legata alla sopravvivenza del supporto e chi invece crede che l’opera sopravviva anche senza di esso, ad esempio come traccia mnemonica o forma espressiva.
Il problema del supporto è certo una fonte di dibattito tra gli accademici, ma anche tra gli artisti stessi, per quanto molti contemporanei, in particolare quelli della corrente concettuale, puntino proprio a sfruttarne la deperibilità. Di questi abbiamo numerosi esempi, ma uno dei più eclatanti è sicuramente l’opera di Damien Hirst The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living. L’artwork risale al 1991 e fu commissionato da Charles Saatchi, cofondatore dell’omonima agenzia di comunicazione e pubblicità. L’opera è composta dal cadavere di uno squalo tigre immerso nella formaldeide ed esposto all’interno di una teca di vetro. Ovviamente, essendo l’elemento principale il cadavere di un animale, il problema del deperimento è dietro l’angolo: lo squalo, infatti, è già stato sostituito ben due volte, anche a causa del terribile odore che aveva iniziato ad emanare la prima versione. Il titolo prolisso è la perfetta sintesi del significato dell’opera e ci porta nuovamente a ragionare sul suo destino: finché l’osservatore resta in vita, l’artwork sopravvive come immagine nella sua memoria e non cessa così di esistere.
Opera che muta da un media all’altro
Esistono però anche soluzioni molto più pratiche per evitare la perdita di un certo patrimonio artistico, molte delle quali basate sull’utilizzo delle nuove tecnologie. Non più solo sopravvivenza dell’immagine e restauro, ma anche rilocazione, un concetto teorizzato dallo storico del cinema Francesco Casetti. Casetti parla della capacità dell’opera di rilocarsi, trasmigrare da un media ad un altro, sopravvivendo così al deperimento o alla perdita del supporto. Un esempio sono le collezioni museali virtuali – come Stolen Art Gallery, museo virtuale delle opere d’arte trafugate – o ancora quei videogiochi indie che puntano a far conoscere un artista o un gruppo di opere, alcune volte addirittura cofinanziati o richiesti dalle stesse istituzioni culturali.
Esiste dunque una soluzione al vizio di forma che perseguita le arti produttive? Oggettivamente sì, ne esistono diverse, anche se non è possibile preservare l’opera intatta senza alcuna modifica o senza riprodurla. Ma forse, una soluzione c’è sempre stata. E quella siamo noi, gli osservatori, e la nostra memoria.
di Martina Dorian Leva