“Non smettiamo di giocare perché invecchiamo. Invecchiamo perché smettiamo di giocare.” -George Bernard Shaw
Questo mese parliamo della privazione, quindi vorrei raccontarvi del tipo di privazione che mi sta più a cuore. Alcune privazioni sono di natura fisica e riguardano il sopravvivere, altre sono assai meno tangibili e riguardano il vivere. Quando le prime non ci obbligano a lottare, dovremmo subito occuparci delle seconde. Ma non è sempre così.
Infatti, anche quando stiamo bene, quando avremmo il tempo, il benessere finanziario e il potere di occuparci di noi stessi al meglio, alcune “voci sociali” ci esortano a non farlo. Ecco quindi la privazione che più ci tengo a debellare: la privazione del gioco nella società adulta.
È una parte della nostra cultura, l’idea che a un certo punto, nel cosiddetto viaggio della vita (se qualcuno lo chiama così, scappate) si debbano seppellire i giochi d’infanzia, la nostra stessa voglia di giocare, di esplorare, di divertirsi veramente. È un concetto talmente radicato che scommetto che l’immagine di un ragazzo (spesso maschio) che seppellisce o ripone una scatola di giocattoli vi sta apparendo nella testa in almeno tre versioni diverse.
La cosa nasce da un sillogismo abbastanza semplice: bisogna seppellire il bambino per far nascere l’adulto. L’adulto è utile alla società, sa gestire le emozioni, è forte. Il bambino invece è debole, emotivo e interessato solo a cose non utili.
Il moderno concetto di “utile”, però, nasce da una mentalità apertamente capitalista e punta a rendere la persona adulta devota alla produttività lavorativa come fine, e non come mezzo per prosperare in tutti quei modi materiali e meno tangibili che discutevamo.
Al contrario, il modo migliore per essere utili alle persone, anziché solo a un sistema, consiste nel semplice capire chi siamo e cosa amiamo fare. Questo tipo di consapevolezza arriva quando impariamo a riconoscere le attività che ci rendono più felici, e quindi proprio dal giocare.
La “non utilità” immediata del gioco è paradossalmente proprio ciò che lo rende necessario. Perché quando giochiamo, quando recitiamo, quando ci travestiamo, esprimiamo quello che siamo davvero, facciamo esattamente quello che amiamo fare, a prescindere se sia utile o perfino reale. Come diceva Adorno, “l’arte è verità liberata dalla menzogna di essere reale” e lo è anche il gioco.
A quel punto, quando il nostro nucleo, il cosiddetto bambino interiore è vivo e ben nutrito, allora possiamo iniziare a pensare a come portare quel benessere nel mondo esterno a noi stessi. Banalmente, una persona che è viva dentro, può condividere quella vita e trasmetterla all’esterno. Al contrario se si è produttivi, ma non vivi, non si può.
Proprio per questo motivo, ci farebbe bene realizzare che l’adulto non è e non deve essere l’antitesi del bambino, ma la sua estensione, la sua evoluzione, un robot gigante che il bambino può pilotare per prendere a cazzotti i mostri e salvare il mondo.
Certo, se crediamo alla bugia del seppellire i giocattoli per diventare produttivi, allora seppelliamo noi stessi, dimentichiamo come si vola, proprio come denuncia James Barrie nel suo Peter Pan, ci impantaniamo come dinosauri nel catrame fino ad estinguerci e diventare combustibile fossile.
Se invece diventiamo consapevoli che la cultura che cerca di cambiarci non è altro che un gioco di ruolo a sua volta, se giochiamo quel gioco allo scopo di hackerarlo, di cambiarne le regole, se manteniamo salda la consapevolezza di essere solo e soltanto bambini che pilotano un gigantesco robottone, allora diventeremo l’evoluzione di noi stessi, una versione più potente di quello stesso bambino, saremo i dinosauri che, proprio come nel finale di Jurassic Park, si evolvono al punto da diventare uccelli, e imparare a volare.
“Il senso dell’avere più di quarant’anni sta nel realizzare quei desideri che abbiamo nutrito sin da quando di anni ne avevamo sette.”
-Guillermo del Toro
di Lorenzo Pelosini “Riverrunner”