Editoriale: la notte dei desideri da una sola cometa

Un topolino immerso in un’enorme forma di groviera, intento a scavare nuovi tunnel di formaggio stagionato. I vetri appannati dal camino troppo caldo, in contrasto con la neve a fiocchi che crolla sul vialetto di casa.

Sotto i cumuli di ghiaccio, un vecchio gatto cerca riparo dal freddo pungente. Una bambina dalle gote rosse lo accoglie tra le braccia, nascondendolo nel cappotto, e lo porta in casa davanti ai ciocchi accesi. Una ciotola di latte, l’albero di natale che si riflette sulla superfice della bevanda calda.

Ancora, un coro che canta in lontananza le canzoni tipiche del posto, in quel dialetto antico alternato al suono della zampogna. Il profumo della cannella e delle arance, l’odore di olio fritto, la carne che bolle in pentola assieme alle patate e alle carote. Il sorriso sghembo di un pupazzo di neve che sbuca dal balcone della camera da letto. Dalle casse il suono amplificato dei sonagli, forse un po’ troppo stonati.

Il Natale è un periodo che si aliena dal reale, un sogno a occhi aperti intriso di ritualità e spiritualità. Qualsiasi sia il credo o il non credo, il tempo sembra prendere un respiro da ciò che è quotidiano.

Natale, rituale nell’alterità

bella e la bestia

Passeggiare nelle vie del centro, soffermarsi a osservare il vischio appeso sulle porte, scambiarsi un abbraccio. Il Natale è un periodo che nell’immaginario comune ricopre tantissimi gesti appresi dalla famiglia o dai fenomeni mediatici. La bella che giocava con la bestia a palle di neve nel cortile del castello, Kevin che si perdeva a New York con una carta di credito e delle tortorelle tra le mani, Topolino che lavorava per pochi spiccioli sotto lo spietato Paperone (Mr Scrooge).

Il Natale, che sia mano nella mano o col cuore solitario, ha sempre quel fascino infantile, certo non esente da ansie e aspettative più grandi di noi. Quella scusa per creare una tregua dai pensieri negativi, almeno per qualche ora, e concedersi il bicchiere di troppo assieme alle persone con cui si è coltivato qualcosa durante gli anni.

Un sorriso rubato, un ricordo per chi quella sedia la lascerà vuota quest’anno.

Il 25 dicembre, come i tre fantasmi del Canto di Natale, convoglia in sé la ricerca di calore sfuggente, la malinconia accumulata in mesi di corse e sopravvivenza, l’incertezza del futuro con cui gireremo l’ultima pagina del calendario.

E allora che si fa? Ci si rifugia nei rituali. Rituale nel trovare un oggetto da regalare, rituale nel cucinare qualcosa di buono, rituale nel riempire la casa di giocattoli a forma di schiaccianoci e palline di cristallo.

Come quel cuore, che ha bisogno di calore, forse inciampato dietro al misticismo e alla tradizione.

Sindrome del Grinch o di quella insopportabile Malinconia

Se da una parte, per quanto stressante e frenetico, il Natale è accolto con gioia. Dall’altro porta con sé il groppone della melanconia e del mal umore. La sindrome del Grinch, ovvero quel volto verde che sorride diabolicamente allo specchio al pensiero di riuscire a distogliere lo sguardo di chi ne è affetto dalle luci a intermittenza appese sull’abete in salotto, è in agguato.

Che sia per traumi accumulati negli anni, infelicità legata a ricordi accaduti in questo periodo o, semplicemente, affanno al pensiero consumistico di questa festa, l’atmosfera diventa soffocante e terribilmente deprimente.

Ancora più soli di prima, mentre scolpiamo le immagini di ghiaccio della nostra tristezza con forbici taglienti, in ricerca solo di un po’ di pace e musica sparata ad alto volume nelle orecchie per coprire le note così alte di Mariah Carey dalla tv.

Un tunnel di tensione, che solo l’empatia e la libertà possono placare. Forse anche l’amore.

grinch davanti allo specchio

Del rosso e del dorato

Il rosso, oltre al colore simbolo del commercio e dei brand d’oltreoceano, si lega strettamente a stati emozionali forti. Il dorato, così elegante, brilla nell’opulenza di una tavola imbandita.

La notte di Natale, seduti da adulti davanti al camino. Il riflesso della bimba dalle guance di fragola continua a correre dietro al gatto, intorno all’albero. Lo vedi nettamente, oltre alla tazza fumante di tisana. Corre veloce, con i suoi giocattoli tra le mani. Poi sparisce nel fumo della tazza. Ci sei tu, sotto quell’albero ora, e ti osservi con sguardo pieno di richieste.

Sta finendo un altro anno. Le sedie sono vuote. Il trambusto è sparito oltre le porte.

Quell’atmosfera alterata si adagia pesantemente sulle spalle. La notte di Natale.

Il topolino torna a giocare ai tuoi piedi, gli occhi vispi e un pezzo di formaggio più grande di lui tra le zampe. Le campanelle smettono di tintinnare.

Anche se si è adulti, che male c’è nel sentirsi così infinitesimi nella notte dei desideri da una sola Cometa.

Miriam Caruso
Miriam Caruso

Caporedattrice di Niente da Dire, è giornalista pubblicista dal 2018, nel campo nerd, divulgativo e musicale.
Nel 2018 fa il suo ingresso nel digital marketing grazie ad Arkys, verticalizzandosi nella SEO e imparando a mettere a punto strategie di marketing per le aziende.
Nel contempo si laurea in Comunicazione e Tecnologie dell’Informazione nel 2020, acquisendo la lode con una tesi antropologica dedicata al Cannibalismo e agli Zombie di Romero. Nel tempo libero, per non cambiare strada, scrive racconti e gioca a giochi da tavolo e canta, sotto la doccia, fuori, ogni volta che può.

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