Editoriale: il corpo come reliquiario dell’esperienza

La prima volta che vidi uno scheletro fu in una chiesa: erano piccole schegge, custodite con premura sotto una teca di vetro trasparente. A lato, una scritta in latino a indicarne l’appartenenza e la data del decesso. Era tutta polverosa, quella reliquia. Non riuscivo a dare un vero significato all’oggetto che avevo davanti: apparteneva a un santo, era un oggetto molto vecchio. Niente di più.

Col passare del tempo, ho visitato molte chiese, sbirciando negli ossari, da lontano. Teschi di dimensioni differenti riposavano eternamente dietro le inferriate, ben riposti su mensole di legno consunte.

Ancora, le mani adunche che sbucavano dalle mummie del Museo Egizio o le falangi strappate accanto ai denti in quell’altro mausoleo disperso in Calabria.

Quei frammenti, una volta, sorreggevano un corpo, sorridevano, speravano e amavano. Portavano le speranze e i sogni oltre le proprie stanze.

Pregavano inginocchiati sotto volte celesti composte da miliardi di stelle morte.

Ecco, osservando quegli scheletri custoditi tra stoffe logore e vetri appannati, il pensiero oggi si sofferma negli incavi di quei volti che non hanno più carne, a cercare occhi e bocca che non possono più parlare. Esposti, nudi, dai sorrisi sghembi e scomposti.

Lo scheletro delle proprie aspettative

Il nostro scheletro ci sorregge, così dice l’anatomia, e fa in modo che tutto ciò che vogliamo possa diventare possibile, alcune volte sfidando anche la fisica stessa. Intendiamoci, parlo dell’anatomica.

E se, invece, volessi andare più in profondità e parlare dello scheletro delle nostre esperienze? Troppo radicale come cambio rotta?

Ma sì, dopo il trauma di una mini me nei reliquiari delle chiese – mi inquietano tutt’oggi, ma continuo ad andarci – ci sta scavare ancora più a fondo. Evitando con colpo da maestra l’invitante desiderio di spolverare il tema degli scheletri negli armadi.

studio anatomico leonardo da vinci

Vorrei parlare di quegli archetipi di conoscenza che si insinuano nel nostro modo di vedere le cose e gli danno una direzione ben precisa. Un corpo, con cui la nostra immaginazione può trottare velocissimo, su tibie potenti e bacino inclinato.

Una scena terribile da descrivere così, lo ammetto, ma penso profondamente efficace.

Guardiamo il mondo con lo stereotipo che abbiamo imparato ad assegnare agli eventi, ci incolliamo su due o tre modifiche e il gioco è fatto: che pigri che siamo.

Ogni osso, ogni reliquia, non custodisce soltanto un corpo, ma una forma di pensiero.

Quante esperienze e possibilità perdono il passo a causa di questa orrorifica abitudine. A un certo punto non siamo in grado di aspettarci più niente perché la nostra percezione delle cose sembra clonarsi in situazioni che si ripetono. Magari perché siamo anche noi a farle diventare l’immagine speculare dell’esperienza precedente.

Scheletri e traumi, non ci torno nell’armadio

Ci stavo per cascare: abbiamo sempre qualcosa da nascondere, ma lasciamolo nell’armadio.

Ritorniamo agli ossicini liberi di circolare nel nostro giardino limitato di esperienze: sono loro a farci lo sgambetto quando invece dovremmo agire a mente aperta e cervello lucido. Le strutture di pensiero, i ricordi, gli archetipi, andrebbero questa volta a buon ragione riposti nella loro teca. Custoditi e ben sorvegliati.

Essi ci privano del piacere di costruire nuovi corpi e nuove percezioni del mondo esterno.

E non parlo di dimenticare il passato o sotterrarlo addirittura. Parlo di farne tesoro e dare nuove possibilità a ciò che ci aspetta.

Concretizziamo, per piacere

Torniamo con i nostri passi alla chiusura del cerchio: tutto ciò puntava dritto verso un tema a me caro, i traumi. Questi rimangono mesi, anni, decenni sotto teche di vetro, con sorrisi sghembi e occhi privi di pupille. Ci fissano da lontano e determinano ogni struttura di ciò che è nuovo oltre il nostro corpo.

Un nuovo amore può essere quella doppia frattura al perone dell’estate scorsa. Cambiare carriera lavorativa potrebbe rispecchiarsi nello scivolone fallimentare con doppio volo carpiato e dente rotto. Una nuova passione, il braccio ingessato dovuto all’altalena troppo veloce e alla perdita di equilibrio.

Il pensare di potersi rompere ogni singolo osso del corpo per testare la realtà è, di per sé, la frattura più grande sulla quale possiamo martellare ogni giorno: un plauso alle nostre aspettative!

Il dolore alle ossa è quello più intenso. Paragonabile in agonia a quello della morte delle emozioni.

Potrebbe essere un peccato lasciarle giacere sotto tessuti strappati e sarcofagi dismessi. I nostri scheletri possono continuare a sonnecchiare nei reliquiari, noi camminiamo in avanti guardando a cosa possono fare questi corpi così vigorosi e belli dei nostri progetti che, fortunatamente, si spingono al futuro.

Le ossa dormono. Noi, finalmente, possiamo muoverci.

Miriam My Caruso

Miriam Caruso
Miriam Caruso

Caporedattrice di Niente da Dire, è giornalista pubblicista dal 2018, nel campo nerd, divulgativo e musicale.
Nel 2018 fa il suo ingresso nel digital marketing grazie ad Arkys, verticalizzandosi nella SEO e imparando a mettere a punto strategie di marketing per le aziende.
Nel contempo si laurea in Comunicazione e Tecnologie dell’Informazione nel 2020, acquisendo la lode con una tesi antropologica dedicata al Cannibalismo e agli Zombie di Romero. Nel tempo libero, per non cambiare strada, scrive racconti e gioca a giochi da tavolo e canta, sotto la doccia, fuori, ogni volta che può.

Articoli: 53