Dai Beatles a 2pac: le rivoluzioni nella musica leggera

“Metti un po’ di musica leggera perché ho voglia di niente…”, canta un noto ritornello sanremese. Ma è davvero così? La musica pop, nel senso più letterale del termine, cioè quella popolare, quella che canticchiano tutti sotto la doccia, in macchina, mentre sono sovrappensiero, o quella che possiamo selezionare noi stessi qui al Double R dal nostro jukebox, è davvero definibile come una cosa di poco conto?

È credenza comune che il pop e il rock, e tutti i generi più o meno commerciali da loro derivati, siano rimasti pressoché invariati dagli anni ‘50 fino ad oggi, e che ciò che ci sembra innovativo altro non sarebbe che un “ripescaggio” di idee raccattate dal passato, riproponendo in modo ciclico gli stessi stili e le stesse strutture che hanno riscosso successo precedentemente. A sostegno di questa teoria c’è sicuramente la presenza di moltissime hit, recenti e meno recenti, che presentano campionamenti o interpolazioni tratte da brani vecchi, e questo potrebbe ulteriormente alimentare la convinzione che la musica leggera sia rimasta fondamentalmente uguale a sé stessa negli ultimi 50-60 anni. A smentire quest’idea ci ha pensato uno studio del 2015 portato avanti da un gruppo di ingegneri elettronici della Queen Mary University e dell’Imperial College, entrambi istituti accademici londinesi, e pubblicato sulla rivista Royal Society Open Science.

Gli scienziati hanno analizzato più di 17.000 canzoni provenienti dalle classifiche statunitensi Billboard Hot 100 relative al lasso di tempo compreso tra il 1960 e il 2010. La ricerca si poneva come obiettivo, infatti, quello di dimostrare come la musica pop si fosse evoluta nel tempo seguendo il metodo scientifico e prendendo in esame alcuni parametri misurabili e confrontabili come l’armonia (il tipo di accordi utilizzati), la melodia, il sound (il tipo di arrangiamenti), la ritmica e le timbriche (le sonorità e gli strumenti scelti). Gli studiosi hanno così effettivamente riconosciuto tre momenti fondamentali, corrispondenti a tre anni ben precisi, in cui la musica commerciale non solo è cambiata ma ha proprio visto attuarsi delle vere e proprie rivoluzioni.

La prima rivoluzione individuata dai nostri ingegneri inglesi avviene nel 1964, con la “British Invasion”, vale a dire l’imporsi sulla scena statunitense da parte di alcuni gruppi provenienti dal Regno Unito, come i Beatles e i Rolling Stones. Il processo di evoluzione stilistica era già cominciato nel 1960 ma è proprio nel ‘64 che, secondo gli studiosi, ha raggiunto il suo culmine: gli arrangiamenti e le armonie si fanno più semplici e diretti, e progressivamente vengono abbandonate le sonorità blues e jazz, non per accantonarle totalmente, ma per affiancarle alle melodie più orecchiabili e ai ritmi più incalzanti del rock.

Mentre scegliete dal menù del Double R le bevande da sorseggiare oggi, io mi avvicino al jukebox per selezionare un brano che, a mio avviso, è particolarmente rappresentativo dell’anno in questione:

“It’s been a hard day’s night
And I’ve been workin’ like a dog
It’s been a hard day’s night
I should be sleepin’ like a log
But when I get home to you
I find the things that you do
Will make me feel alright”

Non penso possa esistere un esempio migliore di A Hard Day’s Night dei Beatles per comprendere quanto fosse rivoluzionaria la musica nel 1964. Il brano si apre con un particolare accordo eseguito da George Harrison che lo rende immediatamente riconoscibile e precede il ritornello in cui le voci di Paul McCartney e John Lennon, compositori del brano, si fondono all’unisono per poi intrecciarsi in una armonizzazione semplice e orecchiabile. La canzone, che prende il titolo da un gioco di parole di Ringo Starr, è una delle prime che viene in mente se si pensa al fenomeno mondiale che hanno scatenato i FabFour ed ha dimostrato come la musica rock potesse essere di qualità ma allo stesso tempo più spensierata sia nei testi che nelle melodie.

L’arpeggio di George Harrison che conclude il brano si dissolve nell’aria mentre Norma adagia sul tavolo i nostri bicchieri.
Vi chiedo di aspettarmi solo un secondo per brindare, intanto che inserisco una seconda moneta nel jukebox per scegliere la canzone che, a parer mio, meglio inquadra l’anno in cui avviene, secondo i ricercatori, la seconda rivoluzione della musica pop.

È il 1983 e le classifiche sono dominate dalla new wave, ma soprattutto dalla musica disco e dalle band “da stadio” come ad esempio i Queen, i Van Halen, i Kiss, i Bon Jovi e Bruce Springsteen con il loro arena rock. Le tecnologie innovative permettono di sperimentare nuove sonorità: gli arrangiamenti prediligono i synth e l’electric piano, iniziano ad essere utilizzati maggiormente i campionatori, gli assoli di chitarra elettrica si fanno più taglienti e distorti ma allo stesso tempo più melodici e “cantabili”, e infine le percussioni vengono messe maggiormente in evidenza: tipico di questi anni è il suono del rullante particolarmente enfatizzato e riverberato; inoltre viene fatto vasto utilizzo di batterie elettroniche. Nell’83, complice anche l’uscita del film Flashdance (è una delle tracce della colonna sonora), nelle radio spopola questa canzone:

“She’s a maniac, maniac on the floor
And she’s dancing like she’s never danced before”

Famoso per accompagnare la scena in cui la protagonista Alex Owens, interpretata da Jennifer Beals, si allena duramente per prendere parte a un’audizione di danza, Maniac di Michael Sembello presenta tutte le caratteristiche del tipico brano anni ‘80: una drum machine martellante, un assolo di chitarra melodico, sintetizzatori a profusione e una melodia accattivante, che si fondono in un mix perfetto di elementi stilistici attinti dalla disco e dal rock. La traccia, nominata agli Academy Award 1984, si è vista soffiare l’Oscar come Miglior Canzone da What a Feeling di Irene Cara, tratta dalla stessa pellicola.

Norma porta via i nostri bicchieri ormai vuoti, ma prima che il locale chiuda abbiamo ancora tempo per un ultimo brano.
Il terzo momento rivoluzionario per la musica pop identificato dagli scienziati britannici coincide con il 1991, anno che vede diventare mainstream la cultura hip-hop.

L’affermarsi del rap nelle classifiche commerciali viene indicato dagli studiosi inglesi come la più incisiva tra le rivoluzioni descritte: per la prima volta, infatti, il comparto melodico viene messo da parte a favore del sound, della ritmica ma soprattutto dei testi. Il cambiamento fu radicale: fino ad allora non era usuale ascoltare canzoni pop che presentassero una minore attenzione all’armonia. Per questo motivo, questa terza rivoluzione viene vista dagli ingegneri come la più significativa, in quanto si tratta proprio di un taglio netto con le tendenze precedenti. Devo ammettere di non essere mai stata una grande ascoltatrice di musica rap, ma anche per una profana come me è impossibile non identificare il repertorio di 2pac, al secolo Tupac Shakur, come una delle pietre miliari del genere musicale in quegli anni.

“Brenda doesn’t even know
Just ’cause you’re in the ghetto doesn’t mean you can’t grow”

Ed è proprio con un brano del compianto 2pac che scelgo di chiudere il nostro incontro di oggi. Brenda’s got a baby, contenuta nel disco d’esordio di Shakur, è un brano rap che attinge dalle atmosfere rhythm and blues, riconoscibili soprattutto nel ritornello del brano, cantato da Dave Hollister e dai vocalizzi soul di un’interprete femminile. Il testo narra, con il distintivo flow espressivo di Tupac, uno spaccato di vita di una dodicenne che si trova a portare avanti una gravidanza in un contesto familiare difficile. Era infatti abitudine del rapper inserire nelle sue composizioni tematiche di denuncia sociale, ispirate spesso a storie vere, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e richiamare l’attenzione delle autorità riguardo i gravi disagi quotidiani che le famiglie e gli adolescenti residenti nei ghetti devono affrontare.

Non ci resta che chiederci quando la musica pop ci riserverà una prossima rivoluzione. Noi saremo qui, al nostro tavolo, con le orecchie aperte, pronti ad ascoltare e lasciarci stupire.
Norma spegne le luci, il Double R chiude. È ora di andare.

di Marta “Minako” Pedoni

Marta Pedoni
Marta Pedoni

Marta Pedoni è una cantante, attrice e performer. Ha inoltre studiato doppiaggio cantato a Roma presso la Scuola Ermavilo fondata da Ernesto Brancucci.
In arte Minako, sceglie questo nome in onore di Sailor Venus. Classe 1990, la sua vita (nonchè la sua personalità) si divide tra arte e scienza, in equilibrio tra razionalità e sensibilità. Tutto ciò si traduce, per farla breve, in una Principessa Disney laureata in Tecniche di Laboratorio Biomedico.
Quando non è su un palcoscenico a cantare, recitare e ballare o non viaggia su un aereo, parla di musica su Niente Da Dire e conduce con Daniele Daccò Il Cornetto Del Mattino sul canale Twitch de Il Rinoceronte Viola.

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