Bigu – la privazione dei grani taoista e il rifiuto della società

Quante volte ci è capitato di voler fare a meno di qualcosa e quante altre di desiderare qualcosa che non possiamo avere?
Tipo tutti i giorni, no?
Ebbene, c’è una certa tendenza umana a desiderare sempre qualcosa di differente da ciò che si ha o si è.

Qui si dipanano mille rami e riflessioni differenti, tuttavia vorrei cercare di seguire un sottilissimo filo che ci condurrà -forse- da qualche parte a capire meglio questa tendenza e a vedere un po’ cosa potremmo ritrovare in noi per sentirci meglio.

Partiamo dal fatto che se qualcosa ci è impedito dall’esterno, stiamo parlando di privazione esterna, una necessità o un desiderio che ci è precluso, è una privazione. Certo il peso è differente se mi è impossibile fare qualcosa di fondamentale come mangiare, rispetto a una più prosaica sete di avventura. Tuttavia, teniamone sempre conto a monte delle nostre analisi – o anche solo piagnistei -. Non siamo privati -da altri- di cose essenziali come cibo o un tetto sulla testa.

Quello che ci manca è sempre un surplus.
Questo non significa non avere ambizioni, sogni o desideri.
Questo rimane solo nell’ambito della gratitudine: sono grata per quello che ho, non è dato a tutti.
Questa è la base.
Poi ci spostiamo alle privazioni esterne di altro tipo: non posso avere la casa che voglio, non posso vivere nella società che voglio, non posso abitare dove voglio, non posso lavorare dove voglio. Eccetera.
Queste cose non dipendono da noi -se non in parte- e dunque se non le abbiamo ci sentiamo privati di qualcosa.
Quanto questo influisca sulla nostra gratitudine iniziale sta a noi, ed è questo approccio che cambia prospettiva su quanto impegnarci o sentirci schiacciati dalle privazioni.

Ok, mettiamo da parte questo pacchetto di “privazioni esterne” e passiamo alle privazioni interne.
Come si intuisce, se l’esterno non dipende da noi, l’interno scaturisce da noi stessi.
Privarsi volontariamente di qualcosa è sintomatico di due cose, non diciamo positive -negative, ma “taoisticamente” parlando di due tendenze polarmente opposte e complementari. Da una parte ciò che riconosco come “non necessario” e dunque concentro la mia attenzione su altro.
Dall’altra vi è quello che non possiamo raggiungere, e dunque decidiamo di lasciare perdere.

Il primo rientra nel concetto di scelta, il secondo nel concetto di sacrificio. Scelgo qualcosa “positivamente” perché non mi interessa, mi sacrifico “negativamente” perché mi sento costretto in qualche modo a fare a meno di qualcosa. Entrambe però sono oggettivamente una scelta e un sacrificio; in entrambi i casi sto scegliendo e in entrambi i casi sto sacrificando le opzioni scartate.

Due lati della stessa medaglia, uno yin e uno yang da saper osservare per non farsi travolgere né da un cieco ottimismo né da uno statico fatalismo.

Il Taoismo ci insegna molto sul concetto di privazione, partendo da qualcosa di molto materiale, per assurdo. Si tratta della pratica del Bigu, letteralmente “Privazione dei grani”, che consiste in una dieta -quasi un digiuno- basato sul “non mangiare i cinque grani”.
Ora, nella mia battaglia contro il glutine, è certo un’opzione interessante, ma non è così semplice.
Sebbene questa pratica consista a tutti gli effetti in una dieta, tanto da essere ignorantemente applicata come qualcosa di magico e miracoloso tutt’oggi, non si tratta solo di questo. Bigu è associato al concetto di “curare il proprio Qi”, con una serie di termini correlati a pratiche di Qigong che non andiamo a esplorare, ma vi è un sostrato estremamente profondo e intenso.

È qualcosa di fortemente connesso alla medicina cinese e al criterio olistico secondo cui essa opera, dove cibo, comportamenti, movimenti e meditazione confluiscono nel corretto benessere della persona. È evidente che se da una pratica estrapolo solo un pezzo come “non mangiare i cereali” allora non ho capito niente e probabilmente sarà qualcosa che mi farà solo male. Più che sulla pratica in sé – che viene riportata tra l’altro anche in vari tipi di ascetismo, come diete per esempio di Buddha e dunque sforando in altre religioni e filosofie – vorrei soffermarmi sulla simbologia.

Perché è nato il Bigu?

Oltre ai concetti di salute alimentare, di epurazione dalle tossine eccetera, il senso stesso di questo genere di privazione sta nel simbolico rifiuto di ciò che erano le abitudini dell’epoca.

Le prime testimonianze scritte di questa pratica risalgono al VI secolo a.C., e la storia ci ha insegnato che quando una cosa compare “per iscritto” vuol dire che nella cultura orale esisteva già. Ammettendo comunque un’origine così antica, la cosa che fa sorridere è che la motivazione di tale privazione risiede nel rifiuto dei costrutti sociali che già all’epoca soggiogavano l’umanità. La società all’epoca si basava molto sull’agricoltura, in particolare la coltura di grano, riso eccetera: era materiale di scambio e sintomo di ricchezza.

Attenzione, non è che i contadini fossero i dominatori del mondo perché avevano in mano l’economia: loro lavoravano la terra, mandavano avanti “il mondo” e morivano comunque di fame.

Carestie, malattie, guerre per i territori e quant’altro concorrevano a rendere comunque difficile la vita ai “padroni dell’economia”. Infatti in media ci sono due motivi in tutta la storia cinese per cui le dinastie vengono rovesciate: rivolte di contadini per carestie, rivolte di contadini per alluvioni. In entrambi i casi era perché mancavano i raccolti. In entrambi i casi era perché era tutto ciò che avevano.

Ecco, allora senza essere troppo critici verso il taoismo che ci dice che bisogna privarsi del centro di questa società basata sullo stringente cappio dell’agricoltura (che ogg, cerchiamo di leggere oltre e guardare in noi cosa significa.  Se ci pensiamo, tuttora, il cappio è pur sempre un’economia al centro di tutto, che ci influenza nelle nostre scelte, decisioni e morale. La società che dipende nella sua interezza dall’economia ossia dal denaro, non è forse quella stessa cosa che ci rende così schiavi e infelici, perché dipendenti da denaro e dalle possibilità, scelte/sacrifici e privazioni esterne, che ci fanno sentire impotenti e frustrati?

Come possiamo ora mettere insieme tutte queste informazioni?

Non è che ne sappia molto, io ho solo ripercorso alcuni pensieri e riassunti moltissimo quindi si perdonerà che non è un trattato di 100 pagine, se ho tralasciato alcune sfumature (il denaro non è uguale all’economia e viceversa, per esempio, ne sono conscia, tuttavia bisogna andare un po’ con l’accetta per non peggiorare l’inevitabile lunghezza di questo articolo).
Partendo dalle privazioni esterne e interne -sebbene non l’abbia specificato- è intuibile che si influenzino a vicenda: una scelta talvolta è mia interna ma è dovuta da condizioni esterne. Però cerchiamo sempre di scindere da ciò che è interno ed esterno, per non generare troppa frustrazione e infelicità: se qualcosa non dipende da me al 100%, le privazioni sono solo condizioni, ma se le vivo sempre come privazioni, sarò sempre infelice. Di contro, siamo onesti con noi stessi, se non faccio qualcosa non devo dare “la colpa all’esterno”, se in qualche modo io ho un margine di azione.
E in che modo il taoismo, anzi il bigu ci può aiutare?
Non certo non mangiando i cereali, come dicevo, non è il punto.

Pensiamo al fatto che non è che il taoista era nato ricco e quindi faceva il travel blogger con i soldi dell’azienda di papà.

Il taoista doveva comunque vivere di quello che c’era, e di certo, privarsi di quello che riconosceva come “tossico” nella società, era un segnale forte di rifiuto e di azione/reazione alla realtà. Privarsi dunque di qualcosa che riconosciamo come tossico, depurarci il più possibile anche con altre pratiche, osservare con oggettività che a volte quello che diamo per scontato, per comodo, per pronto, o per inevitabile, ci fa male, e staccandosi da ciò, possiamo solo stare meglio.

di Alessandra “Furibionda” Zanetti

Alessandra Zanetti
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