Barbie: la recensione ricca di spoiler

Un’attesa durata mesi, con il rosa ovunque tra post virali e meme in accordo con l’uscita di Oppenheimer. Questa è stata la vita di chi, ad oggi, fremeva per l’uscita di Barbie al cinema.

Una pellicola che, sin dal suo annuncio, ha attirato polemiche e preconcetti: “un film su Barbie? Anche meno!”, “io odio Barbie!”, “l’ennesimo film per fare soldi”, “la donna perfetta non esiste, figurati se vado a vedere Barbie”.

Commenti che sfociano, anche, da una scarsa conoscenza dei presupposti con cui si lanciava il nuovo lavoro di Greta Gerwig.

Film capitalista? Sicuramente sì, trattando di un prodotto commercializzato. Una produzione costosa con obiettivi economici alle stelle? Anche questo, sicuramente sì. Film superficiale? No.

La pellicola tocca temi che si diramano dall’attualità alla critica intelligente e tagliente. Sicuramente non il capolavoro della vita, ma un buon film.

Ora, facciamo un passo indietro ed entriamo in Barbieland.

Barbie, vita di plastica “quasi” perfetta

Life in plastic, it’s fantastic”, ma è davvero così? Questa la domanda che sostanzialmente si staglia davanti a Barbie Stereotipo (Margot Robbie) quando la sua perfetta vita plasticosa viene messa in crisi a partire dall’angoscia dell’ineluttabilità della morte fino a ridiscutere ogni sua convinzione sullo scopo della sua esistenza.

Il film di Greta Gerwig con Margot Robbie e Ryan Gosling, perfetti nei loro personaggi, gioca con i ruoli di genere nella società per ribaltarli e criticare ferocemente non solo il patriarcato ma anche, più sottilmente, alcune applicazioni travisate del femminismo.

La prima parte della pellicola, ambientata a Barbieland e caratterizzata da scenografie e costumi incredibili, ci mostra una società interamente gestita dalle Barbie che ricoprono carriere d’eccellenza e passano le loro serate in infinite feste tra sole ragazze.

I Ken sono sostanzialmente degli accessori delle Barbie. Le loro giornate andranno bene solo se le Barbie li degneranno di uno sguardo.

Dei Ken si sa poco, non è chiaro nemmeno dove vivano, visto che le “Case dei Sogni” sono un’esclusiva delle sole bambole femminili. Le Barbie hanno la missione di ispirare le bambine di tutto il mondo e sono fermamente convinte che nel mondo reale funzioni tutto come a Barbieland.

Il tono è quello di una commedia brillante, tra scene in stile musical (particolarmente apprezzate da chi scrive) e un’atmosfera onirica e delirante molto divertente. La sceneggiatura quasi ci vuole spingere a pensare che i dialoghi altro non siano che il linguaggio utilizzato dai bambini quando giocano con le loro bambole.

Ma quando una serie di fatti inspiegabili mina la perfezione di Barbie Stereotipo, si rende necessario andare ad indagare le origini di queste anomalie nel mondo reale.

Può una Barbie morire?

Lo specchio si infrange, Barbie Stereotipo comincia ad avere pensieri che del rosa hanno soltanto poche tracce sbiadite. Può una barbie morire?

I piedi toccano vertiginosamente il pavimento, quasi a simboleggiare la presa di coscienza realistica da parte della bambola. Le smagliature si fanno strada sulle cosce perfette e il cibo diventa bruciato e terribile da ingerire. Il mondo reale l’aspetta ed è qua che si svela la vera intenzione della scrittura di questo film.

A Los Angeles Ken e Barbie sono visti come attrazioni, con i loro vestiti sgargianti su pattini a rotelle. Le persone (in particolare gli uomini) si esprimono quasi esclusivamente per frasi fatte e stereotipate e viene evidenziata l’inadeguatezza della figura maschile, totalmente inetta ed incapace, in contrasto con la perfetta efficienza della società “Barbiarcale”. Di contro, Barbie si interfaccia con una visione sessualizzata del suo corpo, di cui lei non era minimamente a conoscenza.

Ken conosce il patriarcato e, in seguito a un’“illuminazione”, torna nel suo mondo e trasmette agli altri Ken quei pochi elementi di maschilismo con cui è entrato in contatto: la scelta di mostrare gli stereotipi del patriarcato ingigantendoli e ridicolizzandoli ne mette in evidenza le criticità in maniera efficace.

Gli uomini vengono rappresentati da Greta Gerwig, sia nella Los Angeles contemporanea che a Barbieland (ad eccezione del “bambolo” Allan, l’unico della sua “specie”), come delle figure “sbagliate”, generando nello spettatore (usiamo il maschile non a caso) lo stesso disagio che prova una donna nella sua vita quotidiana. Disagio che viene ben espresso nel monologo del personaggio di America Ferrera, in cui si sottolinea come da una donna ci si aspetti tutto e il contrario di tutto, col risultato che per la società una donna non sarà mai “abbastanza”.

La sola critica che ci sentiamo di fare è che la sceneggiatura in generale cade un po’ nella retorica, con alcune frasi che sembrano “copiaincollate” da internet. Caratteristica che, se risulta efficace nel sottolineare gli stereotipi che vengono reiterati ancora al giorno d’oggi, finisce per far perdere di forza alcuni concetti molto importanti sulla condizione femminile.

Società e patriarcato, è tutta colpa degli uomini?

Tuttavia, l’obiettivo di tutto questo non è far sentire gli uomini sbagliati in quanto uomini. La stoccata è diretta alla società nel suo insieme: la critica di Greta Gerwig è rivolta agli stereotipi che il nostro tessuto sociale porta avanti da millenni per entrambi i generi e che si sono infiltrati nelle nostre menti, rendendoci schiavi di modelli di comportamento schematizzati e ripetitivi. Bellissima ed esplicativa, a tal proposito, la scena dei Ken che corteggiano le Barbie suonando tutti la stessa canzone alla chitarra.

L’intero film è un enorme invito ad abbandonare le etichette, a ignorare ciò che la società si aspetta da ognuno di noi, uomini e donne, per abbracciare la nostra vera essenza, le nostre vere inclinazioni, perché siamo tutti esseri umani.

Ed è qui appunto che entrano in gioco anche alcune critiche sottili nei riguardi della rappresentazione femminile nei media in particolare.

Dopo anni di raffigurazione della donna come massaia, damigella in difficoltà, donzella vuota e frivola, la tendenza attuale è quella di mostrare al contrario solo donne “super”. La stessa Barbie, con le sue mille carriere, dà sì forma ai sogni di ogni bambina ed è di ispirazione per ognuna di esse, ma rischia di riverberare in qualche modo lo stesso modello irraggiungibile di perfezione rappresentato da Barbie Stereotipo.

Come se una donna, per essere considerata una “vera donna”, debba costantemente dimostrare di essere straordinaria: ed ecco che si rende necessaria nel finale del film l’idea di Barbie Ordinaria, che sogna una vita “normale”, dove poter essere liberamente chi vuole senza essere giudicata. Decidere di essere una moglie o madre, senza che questo significhi piegarsi al patriarcato o arrendersi ad esso, a patto che questa sia una libera scelta e non un percorso obbligato figlio di un retaggio culturale.

Perché non c’è niente di male o di sbagliato nel non essere “super” ed essere “solo” una Barbie Ordinaria (o “solo” un Ken), senza rinunciare alla propria individualità e indipendenza.

Lo squarcio del velo, Ruth e Barbara

Barbie, verso la fine del film, si trova privata dal suo ruolo principale: essere uno stereotipo. Necessita di un finale anche lei, oltre quello appena conquistato dai Ken.

Sarà Ruth Handler, il fantasma della creatrice di Barbie che vive al 17esimo piano della Mattel, a prendere la bionda protagonista per le mani e farle aprire gli occhi, respirare, provare sentimenti. Lei augurava tutto il bene del mondo a sua figlia Barbara, per questo ha creato Barbie: un’amica, un’ispirazione.

Barbie la osserva, col sorriso di chi vuole avere un proprio scopo nella vita. Per lei la vecchiaia è un dono bellissimo, come anche il provare sentimenti. Quindi, stringendo forte Ruth, esprime il desiderio di diventare umana.

Così, trasportata nella società attuale, il primo passo che compie è la legittimazione del proprio corpo, con la prima visita dal ginecologo.

Ci siamo emozionate, abbiamo riso, riflettuto ed empatizzato con una Barbie che è donna e non più stereotipo.

Abbiamo consolato, nelle nostre menti, il povero Ken, friendzonato dall’amore della sua vita. Ma poi, anche lui si riscatta:

I am Kenough!

Non vi diciamo buona visione, se siete arrivati fino a qua sapevate già tutto. Quindi, speriamo vi sia piaciuto il mondo in rosa e abbiate goduto anche voi di un ottimo film al cinema, anzi “Sublime“.

Miriam e Marta – My e Minako

Miriam Caruso
Miriam Caruso

Caporedattrice di Niente da Dire, è giornalista pubblicista dal 2018, nel campo nerd, divulgativo e musicale.
Nel 2018 fa il suo ingresso nel digital marketing grazie ad Arkys, verticalizzandosi nella SEO e imparando a mettere a punto strategie di marketing per le aziende.
Nel contempo si laurea in Comunicazione e Tecnologie dell’Informazione nel 2020, acquisendo la lode con una tesi antropologica dedicata al Cannibalismo e agli Zombie di Romero. Nel tempo libero, per non cambiare strada, scrive racconti e gioca a giochi da tavolo e canta, sotto la doccia, fuori, ogni volta che può.

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