1899 – L’America Dimensionale

“L’America è un’idea” scriveva Arthur Miller.

La serie 1899 è stata appena cancellata da Netflix, e milioni di fan si stanno chiedendo il perché. Le ragioni sono molteplici, a partire dal fatto che il colosso dello streaming, ex Davide, ora Golia dell’entertainment, sta anche lui navigando a vista (come i protagonisti della serie) attraverso un mare turbolento. Infatti, la recente incertezza finanziaria sta portando Netflix a cancellare anche quelle serie con un discreto riscontro di pubblico, puntando solo sui successi indiscussi come Mercoledì.

A questo ostacolo esterno, possiamo poi aggiungere qualche problema interno. Per esempio, il fatto che la coppia Baran bo Odar e Jantje Friese, già autori della serie Dark, ci portano per mano attraverso diversi episodi che girano in tondo come in un labirinto. Certo anche Dark era un viaggio complesso, fatto anch’esso di cicli e ritorni, viaggi nel tempo, dove ogni personaggio percorreva e ripercorreva i propri sentieri “come un pattinatore artistico” per citare Cloud Atlas. Eppure, ogni istante di Dark era denso, significativo, e dava vita a un meccanismo ad orologeria quasi troppo narrativamente perfetto per esistere. Invece, 1899 sembra vagare per diverse ore alla ricerca di una meta e, in questo senso, il ritmo visivo non aiuta. Forse per desiderio di trasmettere l’atmosfera di stasi onirica, che è poi il centro della storia, la regia propone un’infinta sequenza di personaggi che si bisbigliano l’un l’altro i loro traumi fissando un mare color piombo sempre uguale.

Malgrado questo, la serie mantiene al suo fulcro, una profondità fuori dal comune, e per parlare dei suoi pregi e del perché merita di essere salvata dall’oblio, dovrò mettervi tutti a rischio spoiler.

La premessa, per chi non la conosce, è presto detta. La nave Kerberos viaggia verso l’America con a bordo un gruppo eterogeneo di immigrati, ognuno dei quali parla una lingua diversa e porta con sé un profondo trauma psicologico. Un giorno, seguendo un S.O.S., si imbattono in un’apparente nave fantasma. Ma niente è davvero come sembra. Ora, per buona parte, la serie si appoggia sui classici cliché del genere: una nave deserta, lettere misteriose, simboli ricorrenti, un bambino che non parla ma sa cose, morti che ritornano e sogni ad occhi aperti.

Ma ecco che arriva la svolta, svolta che potrebbe sembrare anch’essa un cliché ma non lo è affatto. Il viaggio verso la ‘terra promessa’, verso il Nuovo Mondo in cui ricominciare da zero, non sta affatto avvenendo, non veramente comunque. Perché tutti i passeggeri sono in realtà all’interno di una complessa simulazione sperimentale, una ‘Matrix’, per così dire, dove sono obbligati ad affrontare i loro traumi passati prima di poterne uscire. La nave non sta viaggiando verso l’America così come non è partita dall’Europa: è solo sospesa in un mare virtuale che si estende all’infinito.

Come dicevo, anche questo plot twist sembra dei più classici sulla carta. Ma il valore della serie nasce dalla profondità esistenziale e psicologica che questa premessa riesce ad aprire. Sì, perché di solito l’idea della simulazione, del sogno, dell’illusione risulta fine a se stessa e alimentata da una filosofia spicciola appena accennata. Ma nei lavori di Odar e Friese, come in quelli dei grandi autori letterari, la filosofia non è un pretesto per l’azione, la filosofia è la protagonista.

Infatti non è tanto l’idea di una singola simulazione ad essere interessante, quanto il pensiero, concepito dalla protagonista, la Dottoressa Maura, che l’esistenza non sia altro che una serie di simulazioni concentriche che si espandono, forse, all’infinito, come gusci di uovo da rompere uno dopo l’altro per uscire e liberarsi. Tale idea è interessante perché ci obbliga a riconsiderare la nostra concezione di viaggio.

Quando siamo stanchi, o traumatizzati da un evento esterno, il nostro primo istinto è quello di fuggire, di ricominciare da capo in qualche altro posto. È l’idea stessa al centro dell’emigrazione/immigrazione, che un qualche altro posto possa fornirci le armi e le situazioni per iniziare una nuova vita. L’idea che ha generato l’America stessa e, per paradosso, la successiva idea che abbiamo dell’America. Ma in questo pensiero, c’è un’illusione.

E quest’illusione non è l’America di per sé, non è la meta, il nuovo mondo o la nuova vita a non sussistere come idea o realtà (sempre che ci sia una differenza tra le due). L’illusione sta nella strada che usiamo per raggiungere tale meta, per uscire dalla nostra prigione. Perché siamo abituati a pensare in due dimensioni, e quindi crediamo che più ci muoviamo avanti nello spazio o nel tempo, più usciremo da quella prigione. Ma la prigione, dimensionalmente e psicologicamente, risiede all’interno di noi stessi. Un interiorità che genera l’esteriorità, una condizione mentale che crea attorno a noi una simulazione in cui tutto è uguale a se stesso.

Nel famoso romanzo filosofico Flatlandia, Abbott ci parla di un Triangolo che vive in un mondo a due dimensioni, e che riceve un giorno la visita di una Sfera che compare apparentemente dal nulla. In realtà, la Sfera viene dalla Terza Dimensione, uno spazio infinito che si estende sopra e sotto al ‘foglio di carta’ in cui vive il Triangolo ma che lui non è in grado di percepire. “Per vedermi nella mia totalità, dovresti avere un occhio dentro di te” gli dice la Sfera. E anche questo, è vero dimensionalmente e anche psicologicamente.

Perché solo viaggiando in sogno nel paese di Linealandia, dove l’universo ha una sola dimensione, il Triangolo capirà cosa sia davvero la Sfera rispetto a lui, e come ogni dimensione si espanda oltre le precedenti, forse all’infinito. Ora, quest’illuminazione dimensionale raggiunta dal Triangolo non nasce da un viaggio fisico o geografico sul suo stesso piano. Pensateci, se anche il Triangolo avesse viaggiato lungo tutto il suo universo a due dimensioni alla ricerca di un accesso alla Terza Dimensione, non ne avrebbe certo trovato il confine o il bordo. Magari sarebbe andato avanti all’infinito o si sarebbe ritrovato al punto di partenza come girando attorno a un globo che crediamo un planisfero.

Ma viaggiando dentro di sé, viaggiando nel sogno, allora quello scavare interiore rivela per paradosso tutte le dimensioni esteriori, un’implosione che rivela un’esplosione di conoscenza, un vero viaggio all’inferno per raggiungere il paradiso.

Ed ecco il punto focale della storia, dove emigrazione si equivale a trascendenza. Perché viaggiare all’infinito sulla superficie del mare, del mondo e di noi stessi senza mai indagare questi elementi nelle loro profondità, senza conoscere i nostri veri traumi e i nostri veri sogni, non ci porta assolutamente, dimensionalmente e psicologicamente da nessuna parte. Quandanche raggiungessimo l’America, essa sarebbe sono un altro luogo, ma non un altro mondo e non una nuova vita, perché in essa porteremmo i nostri problemi irrisolti, restando di fatto nella stessa simulazione di partenza.

‘Lasciare alle spalle’, ‘andare avanti’ sono concetti psicologici dimensionalmente errati. L’America non è un luogo ma un’idea, e quindi, per raggiungerla non bisogna scappare, ma evadere, che è ben diverso. Perché la via per la vera evasione, per la vera trascendenza, non sta nel dimenticare, ma nel ricordare, sta nello scavare un tunnel verso il centro del nostro trauma, della nostra identità e del nostro potenziale, fino a trovare la vera chiave verso il Vero Nuovo Mondo.

di Lorenzo Pelosini “Riverrunner”

Lorenzo Pelosini
Lorenzo Pelosini
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