L'oppressione delle accuse sui social

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L’oppressione delle accuse sui social

L’altra mattina mi sono svegliata e ho pensato a Patrick Zaki. Mi angosciava il fatto di non sentirne più parlare sui media, e, soprattutto, ero terrorizzata all’idea di essermi dimenticata della sua storia. Ma è stato liberato? Dov’è, ora? Com’è possibile che io non mi ricordi di queste risposte?
Non ho acceso la luce e ho subito cercato su internet.

Zaki era stato scarcerato a dicembre 2021, ma non era stato ancora assolto. Questo lo ricordavo. Ma dopo? L’udienza è stata rinviata tre volte. Al 6 aprile, al 21 giugno e al 27 settembre.
Non trovo altre notizie. Ma il 27 settembre è appena passato. Cos’è successo il 27? Perché non ne abbiamo parlato?
Zaki è stato ancora rinviato a giudizio. La nuova data per l’udienza è fissata al 29 novembre.

Forse quella mattina mi sono svegliata pensando a lui perché è da giorni che penso a un’altra incarcerazione, quella di Alessia Piperno.

Alessia Piperno è stata arrestata in Iran.

Mi rendo conto, mentre scrivo, che sono rimasta colpita da ciò che è successo a lei per un semplice (e anche ingiusto) processo di immedesimazione. Parlando di Iran, oggi, il pensiero dovrebbe correre prima a Mahsa Amini, a tutte le donne e a tutte le persone che stanno protestando per e nonostante la violenza e la repressione del regime. O forse non dovrebbe esserci un pensiero che corre prima da una parte e dopo dall’altra, dovremmo poter tenere tutto insieme. Ma io qui ho deciso di parlare di quello che è successo ad Alessia Piperno, nomade digitale che viaggiava da anni per il mondo con lo zaino in spalla, anche per una coincidenza: perché sono capitata per caso sotto un articolo che ne parlava.

Sappiamo tutti che leggere i commenti su Facebook è come avere accesso diretto alla bocca dell’Inferno: li vedi tutti lì, mostruosi e famelici a contendersi un pezzo di carne. Ma l’ho fatto.

Come si possono pensare certe cose?
Come mai quelle persone non sentono lo stomaco attorcigliarsi come lo sento io?
Come mai invece di soffrire giudicano e hanno sempre qualcosa da ridire?

Sembrano discorsi banali, domande ingenue, ma proprio questo mi sconvolge: ci sembra così ingenuo indignarci e chiederci come si costruisca la cattiveria nella mente della gente? Qualcuno ha accusato Piperno e Zaki di qualcosa – qualcosa per cui non si sono potuti difendere e per cui hanno già pagato, probabilmente molto di più di quanto le loro azioni avrebbero richiesto. Quel qualcuno lo chiamiamo regime o dittatura. La chiamiamo corruzione. La chiamiamo ingiustizia. Ci sembrano luoghi lontani, e in questa lontananza ci sentiamo al sicuro. Anzi, è proprio ciò che spesso ci fa sentire migliori (nel nostro privilegio in cui siamo nati e cresciuti, il privilegio di sentire le ingiustizie estranee alla nostra vita quotidiana).

Ma come si chiamano le persone comuni che scrivono sui loro social, anche loro accusando Piperno e Zaki di qualcosa per cui non si possono difendere?
Quelle che commentano dalla tastiera di casa loro, una casa che potrebbe essere accanto alla nostra; prima di andare in ufficio, un ufficio che potrebbero essere il nostro?

Mi spaventa terribilmente immaginare ognuna di quelle persone. Una per una.
Penso a quel commento che sono stati in grado di scrivere: riguarda un argomento, uno solo, in una infinità di argomenti e situazioni.
Quante altre parole immorali, giudicanti, criminali, sono in grado di spendere su tutto il resto? E quali azioni – o indifferenze – generano queste parole?
Come fanno a non sentirsi, al contrario, oppressi dal fatto che Alessia Piperno e Peter Zaki sono solo due dei milioni di casi di libertà violata, oppressione, che ogni giorno vengono perpetrati nello stesso mondo che viviamo anche noi?

Ci sono persone che sono andate a leggersi tutti i post di Alessia Piperno, sono andati indietro sul suo feed proprio per colpirla là dove esprimeva la sua gioia di essere in Iran o la sua mancanza di paura a viaggiare da sola. Sono avvoltoi in cerca di contraddizioni: me li immagino con un ghigno soddisfatto che pensano: “Eccolo, ho trovato il punto in cui colpirla per dimostrare che io sono migliore”.
Ma perché? Cosa li spinge ad agire in questo modo? Quale soddisfazione può esserci nel dolore di qualcuno?

Vorrei davvero avere una loro risposta. E una risposta in generale.

Ho avuto la tentazione di rispondere a quei commenti, poi ho desistito. La verità è che un commento non può far cambiare idea a una persona. Bisognerebbe costruire un dialogo nel tempo, e dovrebbe esserci apertura all’ascolto, cosa che non ha chi commenta in quel modo. La fretta è il tempo dei social, non il tempo in cui le cose possono davvero cambiare.

Io non so se ho più tanta fiducia, e non so dire cosa possiamo fare.

Posso scrivere le mie instabili e minuscole risposte. Cerchiamo di allenare la nostra capacità critica ma anche una disposizione d’animo non giudicante – per arrivare ad arrabbiarci con consapevolezza e strumenti solo per ciò che rovina il mondo, smettendola di pensare agli altri con un filtro di giudizi e opinioni negative costantemente attivo. E, soprattutto, alleniamo la gentilezza e creiamo spazi sicuri.

Perché non solo ogni persona del mondo non dovrebbe mai trovarsi ingiustamente in catene.
Ogni persona del mondo, liberandosi dalle catene, meriterebbe di trovare calore al suo ritorno.

Cerchiamo di essere quel calore.

di Viola “Lady Viova” Sanguinetti

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