Un anello irraggiungibile

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Un anello irraggiungibile

Sto scrivendo queste righe dopo avere visto un solo episodio de “Gli Anelli del Potere”, la serie Amazon ambientata nell’universo fantasy creato da J.R.R. Tolkien. Di conseguenza, questa non sarà un articolo dedicato ai pregi e difetti di questa produzione. Non sarà nemmeno un pezzo relativo al consueto starnazzare di un fandom tossico che pretende adattamenti capaci di leggere loro nel pensiero o che non modifichino una virgola di ciò che amano. E soprassiedo con innegabile eleganza su coloro che si sono dedicati a “rielaborazioni” del volto dell’attrice che interpreta Galadriel, Morfydd Clark, ritenendola non abbastanza bella per il ruolo e confermando di non avere mai avuto a che fare con una donna in tutta la loro vita.

No, l’unico tema che vorrei affrontare è quello dell’inevitabile confronto con colui che ha preceduto questa produzione: Peter Jackson e la sua trilogia dell’anello. Un paragone tanto inevitabile quanto complesso da affrontare. “Il Signore degli Anelli” rappresenta una eccellenza cinematografica che ha settato standard tuttora difficili da raggiungere e rimettere piede in quella versione della Terra di Mezzo porta con sé vantaggi (promozionali) e svantaggi (essere all’altezza di un’opera ormai memorabile).

Per molti spettatori la serie rievoca bene le atmosfere cinematografiche mentre altri ne denunciano mancanze e pigrizie legate ad alcuni aspetti produttivi e alla scrittura. Che gli autori abbiano potuto lavorare solo su poche pagine di appendici per poi inventare di sana pianta cercando di sintonizzarsi sul giusto mood è cosa risaputa e determinante per comprendere il risultato finale. E, a giudicare almeno dal primo episodio, credo sia innegabile lo sforzo messo in piedi da Amazon su tutti i fronti per raggiungere un livello che possa rivaleggiare con la trilogia neozelandese.

Eppure, per quanto mi riguarda, continuo a ritenere un simile confronto poco utile ai fini del giudizio finale sulla serie. Dirò di più: paragonare “Gli Anelli del Potere” al “Signore degli Anelli” non serve assolutamente a nulla.
Non lo affermo perché appartengo alla scuola di chi ritiene certi titoli del passato “intoccabili” nel nome di un patetico attaccamento alla più ingannevole delle nostalgie. Lo faccio perché un’opera come quella diretta da Jackson non è uno standard da superare: è una gigantesca eccezione e, in quanto tale, quasi certamente irripetibile.

Il Signore degli Anelli” è un miracolo produttivo e cinematografico non solo per lo straordinario impegno profuso ma anche per una serie di circostanze fortuite che lo hanno elevato oltre le più rosee prospettive. All’epoca dell’uscita de “La compagnia dell’Anello” nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto e questo perché le circostanze non sembravano favorevoli. Un regista semisconosciuto, riprese interminabili e uno Studio alle spalle, la New Line, che non aveva certo la potenza di major come Universal e Warner (fino al 2001 il suo più grande successo commerciale era stata la saga horror di “Nightmare”).

Jackson ricorda spesso di avere mentito allo Studio garantendo film da due ore e venti per poi “tirare la corda” fino a raggiungere le tre ore. Ecco, qualunque produzione multimilionaria non si comporta così. Avete idea di quante cose avrebbero potuto andare storte? Io mi immagino Bob Shaye e Michael Lynne, i mega-boss della New Line, trascorrere mesi in tensione con il timore che tutto crollasse su se stesso. Lo studio finì in bancarotta nel 2008, evidenziando come non avesse davvero l’esperienza per portare a termine simili imprese e che la riuscita di quella trilogia andasse ricercata anche altrove.

Uno dei fattori che spesso vengono sottovalutati è quello che, a mio parere, ha fatto davvero la differenza: la Nuova Zelanda. Perché tendiamo spesso a dimenticarci che quella saga era un prodotto neozelandese, non hollywoodiano. Certo, realizzato anche con fondi hollywoodiani ma ideato, girato, post-prodotto con maestranze e tecnici neozelandesi. Gente che, all’epoca, non era abituata a simili imprese e che vi si buttò a capofitto nel nome di un profondissimo orgoglio personale e nazionale. Tutti si impegnarono al mille per mille, stringendosi intorno al loro regista-leader per aiutarlo a ottenere un risultato talmente gigantesco da spingere la Mecca del Cinema a inchinarsi di fronte al loro operato.

Addetti ai lavori, talvolta alla prima esperienza cinematografica,  costruirono fino a mille armature complete i cui pezzi assemblati, in totale, toccavano quota cinquantamila. Operose responsabili del Club dell’Uncinetto di Wellington cucirono maglie e stendardi facendo le ore piccole. Chiunque potesse contribuire lo faceva e in qualsiasi circostanza. Peter Jackson si presentò allo stadio Westpac Trust durante l’intervallo di un match di cricket fra Inghilterra e Nuova Zelanda chiedendo alla folla di urlare e cantare in lingua orchesca. Quelle grida divennero gli strepiti di battaglia nella sequenza dell’assedio al Fosso di Helm. Non è un soluzione percorribile in normali circostanze produttive ma, in quel caso, fu reso possibile dall’afflato patriottico dei partecipanti. Volevano dimostrare qualcosa e avrebbero fatto di tutto per contribuire a quella avventura.

Gli Anelli del Potere” non può rivaleggiare con una simile impresa, non potrebbe mai. Quindi ogni confronto è perso in partenza non per il dislivello qualitativo ma per quello legato alle ambizioni e ai desideri di chi lo ha realizzato. È una imponente saga fantasy figlia di massicci investimenti (grazie, è semplicemente prodotta dalla più grande potenza del mondo!) e che prova a omaggiare l’opera originaria adottando uno sguardo più contemporaneo.

di Roberto “Mr. Rob” Gallaurese

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