Baby on board

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«Eri la più grossa di tutta la nursery. Tu, unica femmina, eri la più grossa, in mezzo a decine e decine di maschietti tutti smilzi! Ed eri tuuutta ricoperta di capelli!» [cit. mia madre]

Quando sono nata pesavo 4,98 Kg ed ero ricoperta di peli. Praticamente ero una ewok.

I miei genitori, forse perché non avevano mai visto Star Wars o forse perché erano segretamente alleati dell’Impero, decisero che avrei vissuto l’infanzia lontana dalle case sugli alberi e dalla nobile arte delle armi contundenti artigianali addobbandomi con vestitini, gonne gonfie, collant, salopette rosse, fiocchi nei capelli e scarpette abbinate. Io, per ripicca, appena ho imparato a maneggiare oggetti con sufficiente maestria, ho iniziato a fare la piccola chimica con i prodotti del bagno, sogghignando maleficamente quando vedevo che nessuno si accorgeva che avevo aggiunto allo shampoo il collutorio. Sono una mente perfida sottratta al mondo della chimica, lo so e un po’ lo rimpiango; avrei potuto fare grandi e atroci cose.

Mio padre amava la moda. Aveva fatto per anni il venditore di calze per un’azienda e piccola casa di moda, ed era estremamente attento allo stile. Sempre composto, sempre abbinato, con magioni, camicie e cravatte dei colori più disparati, ma mai stonati tra loro. Per non parlare, appunto, dei calzini (guai a noi se ci beccava con i calzini logori o, peggio ancora, bucati. Era un affronto che difficilmente avrebbe potuto perdonare). Io ero la sua femminuccia, quella da agghindare, quella che avrebbe – nei suoi sogni, e anche in quelli di mia madre – bloccato il traffico mentre camminava lungo il marciapiede con tacchi alti, gonna corta, capelli al vento e un rossetto rosso lucido. Non scherzo, basti pensare che mi regalarono la mia prima minigonna che avevo circa 10 anni.

Ero figlia di mio padre, quindi per forza sarei dovuta crescere con lo stile, la classe e la vanità negli occhi. Ma ero anche la sorella di mio fratello, al quale cominciai presto a rubare i vestiti, a imitare i modi e a vedere che amavo le stesse cose che amava lui – videogiochi e manga, principalmente. Ero bombardata da quelli che mi sembravano due mondi opposti o, per meglio dire, che mi venivano presentati come mondi opposti. Ero femmina, quindi dovevo fare determinate cose, comportarmi in un certo modo, parlare con un registro specifico, amare cose ben chiare. Non ero un maschio, quindi non potevo amare alcune cose, non dovevo farne delle altre, e quelle che erano concesse anche a me avevano però dei paletti, delle regole da rispettare in più.

Quante volte, nel corso degli anni, ho gridato ai miei genitori “dire che non posso farlo perché sono femmina non lo accetto, datemi un’altra motivazione!”, e quante volte li ho visti guardarsi reciprocamente negli occhi per cercare conforto o sostegno nell’altr*, per gestire una figlia femmina che sembrava non capire cosa implicasse essere una femmina. Ero accerchiata da muri che cercavo di rompere, e che forse sì, ogni tanto riuscivo a scalfire, ma non senza farmi io stessa del male e non senza ferire a mia volta chi quei mattoni li stava affiancando l’uno sopra l’altro. E io non volevo ferirli.

Quella minigonna, quella primissima minigonna, alla fine non l’ho mai messa, ma so esattamente in quale cassetto dell’armadio di mia madre si trova. Ancora la conserva, come un cimelio, come un sogno non realizzato, o semplicemente perché forse le ricorda la persona con cui condivideva il desiderio di vedermi sbocciare di un ben determinato tipo di femminilità. Non so. Fatto sta che è ancora lì.

Ora farò un cambio drastico di argomento, ma giuro che nella mia testa c’è una logica. Lo so che lo dico in ogni articolo e raramente la logica si trova, ma ehi, io posso darvi una mano nella comprensione della mia testa solo fino a un certo punto, poi dovete andare a tentativi.

Giocando a Non-binary mi è venuta in mente quella gonna. Mi sono venuti in mente anche quei muri, e quegli sguardi di dolore che mi fissavano quando cercavo di scalfirli. Mi sono venuti in mente i trucchi lasciati scadere, gli smalti lasciati seccare. I collant mai spacchettati, le scarpe basse consumate, i tacchi alti ancora lucidi. Mi è venuto in mente il reggiseno di pizzo che ho amato subito appena visto in vetrina, e la sensazione di fastidio che provo ogni volta che lo indosso. Mi sono venute in mente le scuse che mi veniva naturale fare quando un mio compagno mi toccava le gambe e non erano depilate. Mi sono venuti in mente tutti i momenti in cui venivo giustificata per un mio comportamento “anormale” solo perché ero un “maschiaccio”, come se fosse una parte di me che in realtà era solo una malattia che prima o poi sarebbe, con un po’ di fortuna, passata.

Mi sono venute in mente un sacco di cose, e sono anche riaffiorati sensi di colpa che fatico, ogni volta, a ricordarmi che non devono essere tali. Quante cose può far venire in mente un gioco. Un gioco che alla vista è tremendamente semplice. Una strada lunga, infinita, che non sai quale sia il suo inizio né la sua fine. Non vedi nulla, non puoi quasi dire nulla, e intorno a te altre persone creano muri di parole ben divise, ben catalogate, che ti dicono cosa sei e cosa non sei, ma anche quello puoi e che non puoi diventare, e ciò che devi temere di essere. Parole che ti dicono come comportarti, come muoverti. Come amare, chi amare, chi non amare. Parole che cercano di plasmare la tua identità e che, dannazione, il più delle volte finiscono per convincerti di esserci riuscite.

Tu sei solo un* Pallin* giallo, che è stat* lanciat* in questo viaggio senza tregua violentemente, di colpo, e a cui questi muri non permettono di vedere se ci sono altre vie, se ci sono delle deviazioni possibili, o se se ne possono costruire. E, intanto, oltre a quei muri di parole che oscurano i paesaggi le emozioni, gli sguardi, i giudizi, le sentenze che queste parole esprimono diventano pallottole. Se una pallottola ti colpisce perdi colore, essenza, e non hai modo di riottenerla. La ferita rimane, non si vede, ma c’è. La razionalità ti fa andare avanti, ti fa capire che magari chi ha costruito quei muri e sparato quei proiettili è vittima quanto te di un sistema violento e distorto, che magari anche quella persona è chiusa da muri costruiti da altre persone per l*i, e allora soffri per entramb*; ma intanto quel colore tu ormai l’hai perso, e nessuno sembra soffrire anche per te.

I miei articoli sono sempre molto caotici, lo so, ma perché non riesco a capire il mondo. Solo quando si capisce veramente qualcosa allora si è in grado di spiegarlo con parole semplici, senza però sacrificarne il contenuto. Io non ci riesco ancora. L* sviluppator* di Owof games però secondo me ci sono riuscit*. Hanno usato forme semplici, pure, alla base della geometria più elementare, hanno poi preso parole che sembrano innocenti e che in quanto tali vengono usate in continuazione senza coscienza, e con questi elementi hanno spiegato la complessità dell’essere umano.

Come ho già detto, scegliere, trovare le parole giuste per spiegare tutta questa complessità per me è atrocemente difficile; quindi, giocate Non-binary. Varrà più di qualunque concetto io tenti di assemblare.

di Ilaria Celli

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