Volti la carta e si vede la vita
“In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti.”
Buongiorno a tutt*, mi chiamo Ilaria, ho fatto lo scientifico, e oggi sono otto anni e sette mesi che non calcolo un integrale, però ricordo ancora la regola della mano destra per capire la direzione del flusso magnetico. È dura, ma vivo alla giornata.
Scusatemi, mentre scrivevo mi è venuta in mente questa stupidaggine e so che fa ridere solo me ma, ehi, queste righe sono per me tanto quanto lo sono per voi.
C’è un motivo però se mi è tornato in mente quel magico mondo fatto di angoscia e croccantelle sottobanco che è l’adolescenza, ed è Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, che inizia con la frase che ho messo qui in apertura. Ricordo che sotto il titolo che apriva il capitolo sul calcolo combinatorio del manuale di matematica c’era una citazione a questo libro, e in fondo alla pagina una spiegazione del perché un autore del ‘900 spuntasse così, a caso, tra quelle lettere rapite e costrette a possedere valori numerici. “Letteratura combinatoria”, diceva.
Per comporre le storie racchiuse nella cornice del libro, Calvino fa un’operazione tanto folle quanto folle (non mi viene un secondo termine di paragone se non “folle”, visto anche che lui stesso, nella presentazione dell’opera, confessa quanto tutto ciò lo abbia portato alla malattia e alla frustrazione più di una volta): lascia che sia il caso a intrecciare gli elementi, componendo le storie disponendo su un tavolo le 78 carte dei tarocchi. Una carta dopo l’altra, estraendo a caso dal mazzo, e facendo sì che ognuna riesca a combinarsi e a intrecciarsi nella storia delle carte a fianco, verticalmente e orizzontalmente, in questa scacchiera colorata che andava piano piano a formarsi.
Faccio fatica a spiegarvelo senza incespicare, figuratevi farlo sul serio.
Un progetto che mira dunque a conciliare ragione e immaginazione, l’arte combinatoria e l’elaborazione mitica e religiosa della letteratura. Calvino cerca di rappresentare tramite la letteratura quello che è il caos del mondo, quel frenetico e imprevedibile succedersi di eventi che si pongono uno dopo l’altro e creano relazioni. Ma al tempo stesso cerca di costringere questo disordine a prendere una struttura architettonica precisa. Il romanzo si apre con una foresta e un groviglio di rovi, e prosegue costruendo un labirinto artificiale preciso. In tutto questo caos, in tutta questa imprevedibilità, in questa costruzione che sì è precisa, ma non determinata totalmente dalla volontà dell’autore, la voce dell’autore stesso diminuisce.
Immaginate di trovarvi lì, di fronte a quel tavolo, con alcuni dei tarocchi già disposti a suggerirvi storie ed eventi, e un altro ella vostra mano che attende capiate in quale punto va messo. Lo fissate cercando di interpretare ogni sua linea, ogni suo colore, ogni suo più minimo dettaglio. Vi affidate all’iconografia, all’interpretazione del colore, al significato simbolico e semantico, alla metafora, alla metonimia, a qualunque stratagemma interpretativo vi passi per la mente per riuscire a trovare il senso di quella carta nel cosmo che state riorganizzando sul ripiano di fronte a voi.
Giocare The longest road on earth è un po’ la stessa cosa, solo che voi non siete Calvino, ma siete proprio il viandante che giunge al castello, e di fronte a voi si susseguono altr* quattro viandanti che cercano di sfuggire al silenzio mostrandovi immagini mute della loro esistenza.
Ogni personaggio si muove senza proferire parola, senza alcuna linea di dialogo o di descrizione. L’unico elemento che va ad aggiungersi alla narrazione per immagini è la musica; anzi, sono le immagini ad aggiungersi ad essa, lasciando talvolta l* giocator* inerme, indifes* e immobile ad ascoltare la traccia che prosegue e termina.
Come i tarocchi di Calvino, i personaggi di Brainwash Gang e TLR Games si dispongono di fronte a noi cercando di trovare il modo di raccontarsi ed esistere e creando nell* giocator* un fantasma di intreccio che non prende mai corpo. Nessun arcano maggiore o minore però, nessun colore, nessun simbolo misterioso, solo vite comuni, semplici in superfice e costellazione nel profondo, lasciata nel non-detto. Non cavalieri e dame, ma operai e dipendenti. Non boschi inestricabili, ma strade affollate, corridoi dalle pareti d’acciaio, metro affollate da viandanti stanchi e addormentati, e tavole calde.
Un libro e un gioco, entrambi in bilico tra ordine e disordine, tra l’universo che si dispiega e un frammento che prende parola. Due opere che cercano di racchiudere una qualche sorta di totalità, ma che per i limiti del mezzo e delle stesse capacità umane rimangono incompleti, in un perenne tentativo di afferrare un qualcosa che nemmeno riescono a definire.
di Ilaria Celli
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