L’invenzione di Morel, Casares
Un uomo ricercato ingiustamente dalla legge si rifugia su un’isola sperduta nei mari della Polinesia. Era stato avvertito da un venditore di tappeti a Calcutta:
“Né i pirati cinesi, né la nave dipinta di bianco dell’Istituto Rockfeller approdano laggiù. È il focolaio di una malattia, ancora misteriosa, che uccide dall’esterno verso l’interno. Cadono le unghie e i capelli, muoiono la pelle e le cornee degli occhi, e il corpo sopravvive per otto, quindici giorni.”
Contro ogni raccomandazione, decide di fare dell’isola il suo rifugio. Ma un giorno scopre che sull’isola non è solo. Il fuggiasco comincia a tenere un diario di ciò che accade: dapprima una testimonianza della sua paura di essere individuato, poi della sua curiosità, e infine della sua ossessione. Cerca di scoprire qualcosa di più sugli uomini e donne che sono giunti sull’isola. Sembrano villeggianti: ballano e chiacchierano. Tra loro, nota una donna in particolare, Faustine, che ogni sera guarda il tramonto.
“Non spero nulla. Non è poi così orribile. Dopo averlo deciso, ne ho guadagnato in tranquillità. Ma quella donna mi ha dato una speranza. E devo temere le speranze. Guarda i tramonti tutte le sere: io, nascosto, guardo lei. Ieri, e anche oggi, ho scoperto che le mie notti e i miei giorni aspettano quell’ora. […] Eppure sento, forse un po’ per scherzo, che se lei mi guardasse per un istante, se per un istante mi rivolgesse la parola, riceverei tutto in una volta l’aiuto che l’uomo trova negli amici, nelle fidanzate e in quelli del suo stesso sangue”.
Decide di rivelarsi e di parlarle, nonostante rischi di perdere la libertà. Ma quando lo fa, Faustine sembra ignorarlo, indifferente o sprezzante, o forse chiusa in motivazioni che il fuggiasco non può comprendere e che cerca di volta in volta di giustificare. Ma si insinua il dubbio: che siano fantasmi? Che sia lui stesso ormai solo un fantasma? Tra i momenti in cui spia da lontano Faustine, impara a riconoscere un uomo, Morel, che scambia con lei e con altri compagni parole ambigue, di cui il fuggiasco non riesce a cogliere bene il significato.
Non si sa se spinto più dall’ossessione per la donna o più dalla volontà di svelare gli arcani che si infittiscono, il protagonista si intrufola nel Museo, luogo e casa del gruppo, e origlia conversazioni, osserva i movimenti, cerca di trovare un nesso. Cosa sono i macchinari che trova sull’isola? Perché Faustine sembra non accorgersi della sua presenza?
Tutto si svela, o quasi, quando Morel stesso spiega agli altri suoi compagni la sua invenzione, ciò che ha portato il gruppo sull’isola.
È difficile parlare oltre della trama di questo libro (L’invenzione di Morel, Adolfo Bioy Casares, Edizioni Sur) senza svelare troppo. Si tratta di fantascienza, quasi distopia, ben narrata nella forma diaristica che ci fa rimanere lì a non capire cosa succede insieme al protagonista, ancorati e obbligati al suo sguardo. Uno sguardo di un uomo che vive nel terrore di perdere la sua libertà, nell’ossessione di una donna con cui non ha mai parlato, nella solitudine di una vita su un’isola deserta. Uno sguardo più che soggettivo, che in un contesto di inquietudini, misteri e invenzioni impensabili rende ancora più difficile trovare una sola interpretazione ai fatti. Questa è la potenza dei libri, e in generale dei libri che ci vogliono scuotere e far riflettere.
Adolfo Bioy Casares (1914-1999), come viene spiegato bene nella postfazione del libro di Francesca Lazzarato (traduttrice della nuova edizione Sur), era molto amico di Jorge Luis Borges. Quest’ultimo, divenuto voce famosa della letteratura latinoamericana, ha interpretato il libro di Casares come un’avventura perfetta di pura trama, anche se in realtà possiamo leggere nelle sue pagine più una storia psicologica-filosofica, e la forma diaristica prima di tutto ce lo dimostra.
Se pensiamo all’anno di uscita del libro – 1940 – e al tipo di fantascienza che si trova al suo interno, ci rendiamo conto che Casares ha visionariamente anticipato i tempi, come spesso succede a chi scrive fantascienza.
Cosa ci fa dire che siamo vivi? In cosa consiste la nostra vita senziente? Che potere hanno le immagini? E che valore l’immortalità? Dov’è il confine tra scienza ed etica?
Dal libro hanno preso ispirazione gli sceneggiatori di Lost per scrivere di una delle isole più famose dei nostri tempi (e infatti è proprio “L’invenzione di Morel” uno dei libri che Sawyer legge nella serie).
Non è un libro che mi ha tenuta col fiato sospeso – io non amo la forma diaristica e le narrazioni in prima persona – ma è un libro interessante, sia per la storia della letteratura latinoamericana sia per la storia della letteratura fantascientifica. Lo consiglierei, quindi, agli appassionati dell’una o dell’altra, o a chi si è perso in Lost e ancora non ha capito come uscirne.
“Non dovremmo chiamare vita quel che è latente in un disco, e che si rivela se il fonografo funziona, quando aziono un interruttore? Devo insistere sul fatto che ogni vita, come i mandarini cinesi, dipende da pulsanti che esseri sconosciuti possono premere? E voi stessi, quante volte vi sarete interrogati sul destino degli uomini, ponendo le vecchie domande; Dove andiamo? Dove ci troviamo, come musiche su disco mai ascoltate, finché Dio non ci ordina di nascere? Non cogliete un parallelismo tra i destini degli uomini e quelli delle immagini?”
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