Tre domande a Stefano Burchi, scopriamo “Stonewall 1969 – A war story”

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Tre domande a Stefano Burchi, scopriamo “Stonewall 1969 – A war story”

Parlare del valore del gioco, di come possa essere un atto non solo di svago, ma anche didattico, divulgativo, culturale, un’esperienza capace di plasmare l’individuo, si finisce sempre per dimenticare qualcosa. La lista delle qualità e dell’importanza che può assumere il gioco è troppo vasta. Non solo può formarti, ma anche portarti a scoprire lati di te, del sistema in cui vivi e di come questo ti abbia influenzato. Sì, il gioco può essere svago ed escapismo, ma non è mai solo svago ed escapismo. Alcuni giorni fa abbiamo avuto la possibilità di giocare in anteprima Stonewall 1969 – A war story, un gioco di ruolo creato da Stefano Burchi ed edito dalla casa editrice indipendente Asterisco Edizioni, e ambientato durante quelli che vengono ricordati come i moti di Stonewall. Ogni giocator* ha la possibilità di impersonare dei personaggi di finzione che partecipano alla rivolta che diventerà poi iconica nella storia dei diritti civili e della comunità LGBTIQ+.

Qualche giorno dopo aver giocato insieme, abbiamo nuovamente importunato Burchi via Skype per fargli qualche domanda. (Qui, invece, trovare l’intervista che abbiamo fatto all’attivista e gamer designer di Asterisco Edizioni, Marta “Martu” Palvarini)

NDD: A chi è rivolto Stonewall 1969?

Stefano: Stonewall 1969 è un gioco, e in quanto tale – in quanto attività volontaria – è rivolto a chi è interessato ai temi di cui parla; quindi sono persone LGBTIQ+ che eventualmente vogliono approfondire alcuni dettagli della storia della loro cultura, in particolare perché Stonewall è stato un momento spartiacque nella storia, a livello di presa di coscienza e di nascita di un certo movimento di piazza per l’affermazione e la rivendicazione dei diritti LGBTIQ+, e una serie di particolari di quell’epoca non sono così noti. Al di fuori del mondo dell’attivismo ci sono diverse persone LGBTIQ+ che non hanno idea di cosa sia Stonewall; magari lo hanno sentito nominare – soprattutto negli ultimi anni visto che è ricorso pochi anni fa il cinquantennale – ma oltre al “la prima volta fu rivolta” non è che se ne parli più di tanto fuori da determinati ambienti di attivismo. Per quanto concerne le persone appartenenti alla comunità LGBTIQ+ è dunque una maniera per avvicinarsi alla propria storia senza usare un’opera storica, perché – credo di avervelo accennato anche mentre giocavamo – Stonewall 1969 non è un gioco storico, bensì è un gioco che usa elementi storici, ma di fatto è una drammatizzazione finzionale. Ripercorre determinati avvenimenti, ma lo fa da una prospettiva di personaggi di finzione, che sono verosimili, ma rimangono di finzione.

Al di fuori del mondo LGBTIQ+ il gioco può parlare soprattutto a tutte quelle persone che si considerano alleate, perché c’è spesso questo problema comunicativo con le persone che non fanno parte di una soggettività o di una minoranza oppressa, ma che in qualche modo ne sostengono la causa, e il problema comunicativo è che spesso la persona che appoggia ma che non vive sulla propria pelle la situazione di oppressione, fa a volte fatica a empatizzare o capire determinate esigenze che vengono espresse dalle soggettività marginalizzate.

Il gioco, come mezzo, ha questa capacità di parlare a un livello molto più basso ed emotivo rispetto a una conversazione razionale frontale. Come abbiamo visto in partita, certe barriere tendono ad abbassarsi, perché non siamo noi in gioco ma il nostro personaggio; in realtà, per via delle dinamiche del gioco – e in particolare della dinamica del bleed, che è la sovrapposizione delle emozioni tra il personaggio e chi lo gioca e viceversa – si riesce a far passare messaggi in maniera più efficace, facendo sì che chi gioca si ponga domande che sarebbe molto più difficile porsi senza cambiare punto di vista, anche solo per poche ore di gioco. È proprio il metterti in una condizione tale per cui vivi un’esperienza con un punto di vista che non è il tuo a fare la differenza. La rappresentazione del personaggio che si mette in gioco non deve essere precisa o perfetta, perché l’attività resta un gioco e non c’è nessuno che ci giudica mentre lo facciamo. È tuttavia importante che l’approccio del giocatore verso il personaggio sia onesto, che giochi quel personaggio di finzione come se fosse una persona vera. Se si fa così, quanto più di tuo metti nel personaggio e quanto più lo giochi in maniera onesta, tanto più l’esperienza ti darà un rimbalzo emotivo e di significato forte.

Oltre a questi due target che ho di riferimento, ci possono anche essere persone che apprezzano questo tipo di storie e che quindi vogliono mettersi in gioco per provare questa esperienza.

NDD: A differenza di molti altri giochi di ruolo, Stonewall 1969 è un gioco – per così dire – orizzontale nelle dinamiche di potere tra giocator*, e “cinematografico”. Cosa ti ha portato a optare per queste scelte di design?

S: Dunque, partiamo dal presupposto che i giochi non nascono nel vuoto. Stonewall 1969 è nato in un contesto molto specifico, ovvero la cultura ludica espressa in quell’ambiente nel quale io mi sono mosso. È un ambiente fatto da designer, giocatori, giocatrici, piccole case editrici che ruotano intorno al mondo indie e che, rispetto al mondo di gioco mainstream, ha fatto sua – già da diversi anni – molta sperimentazione. È un ambito in cui ci sono svariate autorialità queer che hanno espresso, tramite giochi, il loro punto di vista e i loro messaggi. La cultura ludica nella quale sono stato immerso negli ultimi anni mi ha dato input tali che mi hanno spinto a usare gli approcci che ho usato in questo gioco. Come dicevo, un gioco non nasce dal nulla, e Stonewall 1969 in particolare ha un sacco di mattoni su cui si è costruito. Questi mattoni sono fonti ludiche che vanno anche molto indietro nel tempo. In particolare, la prima ispirazione è Montsegur 1244; la dinamica e la struttura del gioco sono infatti molto simili a quelle che si sviluppano in una partita di Stonewall 1969: ho mutuato determinate scelte di design, poi le ho adattate, modificate o integrate secondo le necessità che avevo. In Montsegur 1244 si esplora ciò che è successo durante l’ultima crociata contro l’eresia Catara. È l’ultimo assedio, l’ultima roccaforte di chi professava questa eresia, e quello che si sa storicamente è che la gente arroccata in questo castello, quando l’assedio finì e la roccaforte fu presa, piuttosto che abiurare decise di bruciare. Quasi tutti i catari decisero di morire condannati sul rogo, e questa è una cosa che lascia sconvolti. Cosa li ha spinti a scegliere di non salvarsi la vita?

Ecco, anche quello è un gioco che, analogamente a Stonewall 1969, sai come inizia e sai come finisce, ma vuoi capire il perché si arrivi a quella fine, qual è stato il percorso dei personaggi per arrivarci. Mi piace molto questo tipo di struttura narrativa, perché pur rimanendo molto libera, di fatto ti guida in maniera precisa su cosa raccontare e perché, e dà un ritmo alla narrazione che ti permette di assaporare il crescendo di tensione e di sviluppare il dramma dei personaggi per andarci dentro. A me piacciono le storie che si raccontano attraverso gli occhi dei personaggi, al di là del gioco. In generale, mi interessa molto la prospettiva del personaggio in una storia, cioè la sua narrazione, perché è quello che la rende diversa da altre storie, a prescindere che trattino magari dello stesso oggetto.

Altro titolo di grande ispirazione è stato Witch: La strada per Lindisfarne, che racconta l’ultimo viaggio di una strega condannata al rogo per aver causato la peste di Londra nel Trecento; ecco, anche in questo caso si tratta sempre di una storia di cui conosciamo l’inizio e gli eventuali epiloghi, ma quello che vogliamo affrontare e sviscerare è cosa porterà i personaggi verso uno specifico epilogo. Il gioco racconta la storia della compagnia che scorta questa strega al luogo dove è stata condannata a bruciare rogo, e che dovrà decidere se bruciarla davvero oppure no. È per questo che dico che Stonewall 1969 non nasce nel vuoto, perché ho avuto una serie di esempi e di strutture non necessariamente simili, ma diverse abbastanza per capire come sperimentarci, e rodate abbastanza per capire cosa funzionava e cosa no, e cosa mi serviva e cosa no.

Giochi a struttura orizzontale ce ne sono tantissimi, e sono ormai 15-20 anni che il design nel mondo del gioco sperimenta un sacco; il punto è che lo fa principalmente nel mondo indie, e non in quello mainstream; quindi spesso mi trovo a portare Stonewall 1969 in giro e trovarmi persone al tavolo che pensano che sia una novità, in realtà è semplicemente il primo gioco di quel tipo con cui queste persone entrano in contatto. Io mi sono semplicemente appoggiato sulle spalle di giganti che hanno sperimentato e aperto determinare rotte nel design prima che io arrivassi a pensare di poterci fare qualcosa di mio.

Oltre questo c’è poi tutto un aspetto legato al discorso delle pratiche di sicurezza e sostegno alla conversazione in gioco. Come avete visto mentre stavamo giocando, è qualcosa su cui pongo molta attenzione, e sono fondamentalmente convinto che serva e che senza non sia possibile giocare, per via di tutte quelle situazioni che avete visto anche voi possono emergere. La nostra è stata una partita relativamente tranquilla, ma ce ne sono altre che ci vanno giù molto pesanti, e non è sbagliato che lo facciano, però per poterti buttare con la tranquillità di poterne uscire sicuro devi avere degli strumenti che ti permettono di farlo. È stato quindi per me fondamentale essere immerso in una cultura ludica che, da un certo momento in poi, ha cominciato a interrogarsi in maniera fondamentale sul concetto di consenso applicato al mondo del gioco, perché – come dicevamo mentre stavamo giocando – il gioco è una conversazione, o meglio lo è nel caso di Stonewall 1969. Ma la conversazione funziona se siamo tutti sulla stessa pagina, se siamo tutti in accordo sulle basi di cui stiamo discutendo e se possiamo in qualunque momento dire “no basta, ora mi voglio fermare”. Gli strumenti di sostegno e di sicurezza servono a questo: a gestire un consenso al tavolo circa quello che si sta raccontando. Io ritengo – e questa è una mia posizione personale, ovviamente – che sia fondamentale in maniera trasversale a tutto il mondo del gioco di ruolo, anche per quei giochi che per loro natura non lo prevedono, avere un framework che aiuta a gestire questo tipo di dinamiche, in modo da aiutare a non mandare in rotta campagne di gioco, rapporti, amicizie. Non è impossibile che un rapporto d’amicizia si rompa a un tavolo da gioco, perché a volte si tocca l’argomento sbagliato e tutto si rovina. Il gioco può toccare certe corde, che ci fanno riflettere, pensare e ci mettono in tensione, e ciò non capita solo in giochi che lo prevedono – come Stonewall 1969 – ma succede a prescindere. Il gioco di ruolo è di natura emergente, il che significa che non c’è una serie di azioni predefinite che puoi fare e basta, ma quello che succede si scopre mentre si gioca sulla base di ciò che chi gioca ci porta dentro. Anche in un gioco più escapista non puoi sapere in anticipo cosa verrà fuori.

Ovvio, non è che succeda sempre, ma succede.

E poi l’ultima parte riguarda la documentazione. Prima di poter anche solo pensare di sviluppare il gioco ho letto saggi, ho visto documentari, anche solo capire se potessi procedere con un’idea del genere e se aveva senso portarla avanti. Per me il senso ce l’aveva, e una volta capito questo ho dovuto trovare il modo di raccontarla in modo che fosse funzionale. Volevo che fosse un gioco celebrativo, capace di portare a porsi delle domande su azioni, eventi e dinamiche che sono state importanti per determinate persone e per l’affermazione identitaria e politica di un intero movimento.

NDD: E l’utilizzo del linguaggio? Perché tu hai fatto un enorme lavoro sul linguaggio, che è pieno di lessico discriminatorio. Come mai?

S: Perché parliamo degli anni ’60, in quel tempo quel lessico era il quotidiano, e noi giochiamo un gioco di fiction che è ispirato a quell’epoca. Quindi il gioco è vincolato da determinati paletti e determinati elementi che ci ricordano cosa volesse dire vivere in quell’epoca.

Esattamente come non abbiamo internet, esattamente come se vuoi conoscere qualcuno tocca che esci e vai in un bar – e se sei gay vai in un bar come lo Stonewall, che è illegale, perché non hai alternative -, esattamente come se sei una persona queer e vivi isolata e non vicino a un centro cittadino allora sei sola, il linguaggio che veniva usato nella quotidianità in quell’epoca dà corpo a questo contesto. Perché le parole hanno questo potere di essere i mattoncini con i quali costruiamo i modelli con cui rappresentiamo il mondo, cioè le idee. Le parole sono la base per creare i modelli con cui comunichiamo, per quanto imperfette o imprecise che siano. E ogni parola non è mai neutra, ma veicola sempre una sfumatura di significato, e le parole presenti nel gioco sono parole che parlano di determinate soggettività dal punto di vista di chi le opprime. Ma quando anche le persone oppresse possono parlare di sé solo con un linguaggio che deriva da chi ha una visione molto chiara e discriminatoria di loro, che cosa succede? Nel gioco uno degli epiloghi possibili è “sono malato”, che non va quindi a sconfessare o ribaltare la dichiarazione iniziale fatta quando il personaggio si presenta, perché il linguaggio serve anche a questo a volte: a crearti una barriera nella mente. Se non hai modo di elaborare, a partire dalle parole, idee che ti permettono di emanciparti, di raccontarti, di vederti rappresentato nel mondo in una maniera che sia positiva o quanto meno funzionale a narrare il tuo punto di vista, se non c’è questo allora non ci sono specchi in cui ti puoi riconoscere; e se una società non ha specchi in cui ti puoi riconoscere allora tu in quella società non esisti.

NDD: Perché il sottotitolo A war story?

S: Per rispondere a questo, parto dalla premessa che è alla base del gioco, ovvero una citazione presa in prestito da Simone de Beauvoir, che recita: “Ogni oppressione crea uno stato di guerra”. La storia della nascita del movimento di liberazione LGBTIQ+ non è un’eccezione a questa affermazione. Chiaramente non è il tipo di guerra che ci viene in mente quando pensiamo alla guerra in senso lato; pensiamo agli orrori sul campo di battaglia, a uomini con pistole o fucili d’assalto, ma non pensiamo che il vivere in uno stato di guerra possa essere qualcosa che è proprio di una società civile e democratica – per altro avanzata – che vive in un tempo di pace. Nel momento in cui si vive in una situazione di oppressione come quella sperimentata dalle persone queer dell’epoca, quello che viene messo costantemente in dubbio è il tuo diritto di sopravvivere e di determinarti.

Parliamo di una situazione in cui se esci di casa e non sei vestito nel modo in cui ci si aspetta tu ti vesta dai il pretesto alla polizia di arrestarti. Poi se non hanno altri elementi per trattenerti, dopo qualche ora ti liberano, ma intanto hanno avuto il pretesto lecito per arrestarti. Parliamo di una situazione in cui se il tuo nome finisce sul giornale perché ti hanno arrestato in un locale gay rischi di perdere il lavoro, il tuo contatto con la famiglia e ogni dignità da essere umano. Una situazione in cui se i tuoi familiari ti ritengono malato possono provare a curarti e le cosiddette cure non sono così diverse da vere e proprie torture, capaci di distruggere quel che rende una persona un essere umano. Questo è il tipo di leva che la società ha nei tuoi confronti, e la polizia in questo contesto rappresenta la forza dello Stato, è il braccio armato del potere. Come fa a non essere una guerra questa? È chiaro, ha connotati diversi da quelli classici, ma nel momento in cui parliamo di sopravvivenza, di campare facendo il doppio della fatica per ottenere meno della metà di quello che hanno gli altri, di non poter dare per scontato il privilegio di poter definire se stessi, allora è importante rifletterci.

La citazione di Simone de Beauvoir in realtà si riferisce alla condizione che sperimentano le donne all’interno di una società patriarcale, perché la popolazione femminile è più o meno la metà della popolazione mondiale, e tuttavia è oppressa dalla cultura patriarcale. Se questa affermazione è valida per le donne, immagina come debba essere per una soggettività ancora più oppressa. Giocando diventa spesso evidente come l’oppressione delle persone queer non si manifesti per tutte allo stesso modo. Personaggi appartenenti a classi sociali differenti, con colori della pelle differenti o con identità di genere differenti sperimentano in maniera molto diversa il peso oppressivo della società. Essere gay, bianco e borghese non è come essere gay, nero e senza lavoro. Così come essere una persona transgender o non esserlo non dà luogo allo stesso livello di oppressione, anche se entrambe le persone sono queer. In questo senso, il concetto di intersezionalità delle oppressioni è stato alla base del design del cast di personaggi del gioco.

NDD: E per quanto riguarda l’approccio “cinematografico”, come mai questa scelta?

S: Questo è un discorso legato al come mi piace giocare e al tipo di giochi che mettono più facilmente in moto il tipo di dinamiche che mi piace vedere al tavolo. A me piace molto ragionare in termini cinematografici, perché è una maniera molto chiara per trasmettere alle persone al tavolo cosa intendi. Dire: “muovo la telecamera”, “quello che inquadro è quello che è rilevante”, parlare in termini di scene, aiuta a focalizzarsi su cosa è importante. Inoltre, essendo un approccio in genere molto diretto e asciutto, aiuta anche chi non è in scena a rimanere coinvolto.

Quindi il taglio cinematografico ha due scopi principali: focalizzarsi su ciò che è veramente importante e imporre un certo ritmo al gioco.

Infine, è facile parlare alle persone in termini di “fai finta di starlo vedendo su uno schermo”. Anche se non sono tecnici del cinema o sceneggiatori non importa: capiscono, almeno a livello intuitivo, di cosa stai parlando.

NDD: Cosa ti lascia senza niente da dire?

S: In questo momento particolare della mia vita, quello che mi lascia senza niente da dire – e so che può suonare un po’ astratto – è quella situazione in cui ti trovi davanti persone che non riescono, non possono o non vogliono parlare di determinati argomenti nel loro merito o dalla prospettiva di chi cerca di proporre una riflessione più ampia, ma li usano invece come scuse per fare propaganda e parlare di altro. Oggi, se volete, come esempio ci può essere la petizione contro lo schwa, che mi fa sorridere con amarezza. Oppure tutte le paure che la propaganda – in particolare di una certa parte politica – ribalta addosso alle masse, e che hanno un effetto concreto sulla vita delle persone che si trovano dalla parte sbagliata della narrazione oggetto di propaganda, tipicamente soggettività marginalizzate. Prendete ad esempio il triste teatro del ridicolo che è andato in scena durante la discussione del DDL Zan in Senato, prima che venisse affossato. Ecco, questo mi lascia senza niente da dire: cosa dici a persone con cui non puoi parlare perché siete su livelli diversi di discorso, che vivono un privilegio sociale che li rende ciechi alle tue istanze e che non ti ascoltano e non sono interessate a farlo perché per loro tu sei sbagliato o forse non dovresti nemmeno esistere?

Non credo ringriazieremo mai abbastanza Stefano Burchi per il tempo che ci ha dedicato, sia facendoci provare in anteprima il gioco che prestandosi a questa chiacchierata serale filtrata attraverso le immagini sgranate delle nostre webcam. Stonewall 1969 – A war story ha da poco concluso la sua fase di kickstarter e uscirà ufficialmente a novembre di quest’anno. Potete comunque andare sulla pagina ufficiale del progetto e dare un’occhiata al gioco.

di Ilaria Celli e Damiano D’Agostino

Immagini a opera di Michela Da Sacco

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