Love is blind
Love is blind, l’amore è cieco, oltre a essere un modo di dire è diventato anche uno show.
Format proposto dagli americani e passato dai brasiliani, è infine giunto anche ai giapponesi.
Pochi giorni fa, l’8 febbraio, è infatti stato messo online su una piattaforma streaming (Netflix per la cronaca), l’edizione giapponese di questa serie.
Ecco in due parole di cosa si tratta, poi a ruota un mio commento spassionato e la motivazione per cui ne scrivo.
In cosa consiste lo show
30 persone, tra uomini e donne, cercano l’amore, nello specifico il matrimonio, ma lo fanno in un modo diverso dal solito.
Divisi tra maschi e femmine, i due gruppi rimangono separati per 10 giorni, giorni in cui ognuno di loro parteciperà a degli appuntamenti al buio con una persona dell’altro sesso.
La coppia avrà la possibilità di parlarsi, conoscersi, farsi domande, ognuno chiuso in una pod, una stanza insonorizzata.
Le due camere, però, non sono comunicanti e i partecipanti non potranno vedersi, da qui il titolo dello show.
Senza poter leggere le espressioni del viso, né sapere quale sia l’aspetto fisico dell’altro, entro i 10 giorni dovranno decidere se fare o meno una proposta di matrimonio.
Solo allora la coppia si potrà incontrare.
Dopodiché ci sarà una piccola vacanza insieme, 3 settimane di convivenza e infine l’agognato sposalizio.
Quante coppie si formeranno? E quante arriveranno davvero all’altare per convolare a nozze?
Questo è quanto.
Di primo acchito la reazione di chiunque sarebbe liquidare il programma come trash e potenzialmente passare ad altro.
In realtà, al di là di quanto sia veicolato dalla produzione o meno, è una finestra sul comportamento giapponese in contesti come la socializzazione e l’espressione dei sentimenti.
Certo, alcuni saranno volutamente esasperati, ma basta vedere l’edizione statunitense e quella giapponese per accorgersi di quanto sia forte l’impronta culturale in entrambe le versioni.
Pro e contro culturali
Il modo tutto nipponico di muoversi come l’acqua, di evitare i conflitti e i disagi dovuti ai rifiuti, in un caso come questo ci sono tantissimi pro e altrettanti contro.
I pro sono che già di per sé i giapponesi non sono per il contatto fisico e hanno una versione leggermente simile a questa di combinare matrimoni: l’omiai.
Attraverso un intermediario mandare una specie di curriculum in modo da scegliere e venire scelti per un’unione calcolata e sensata, approvata anche dai genitori. Se a uno dei due non dovesse piacere l’altro basta che lo dica all’intermediario che porrà fine al procedimento.
Quindi più o meno devono fare la stessa cosa, sedersi, fare due chiacchiere e capire se ci sia comunione di intenti, se si sia sulla stessa lunghezza d’onda sulla gestione della casa e della famiglia.
Farfalle nello stomaco? Sì ma anche molta logica.
D’altro canto non hanno possibilità di tergiversare a lungo, né di adattarsi all’altro osservandolo con attenzione.
Una delle partecipanti ha avuto grossissimi problemi a relazionarsi con gli altri perché abituata normalmente a leggere le espressioni e a modificare il suo comportamento di conseguenza. Una volta che questa possibilità è venuta a mancare non sapeva in nessun modo come socializzare e avvicinarsi agli uomini.
Interesse antropologico
Tutto ciò che hai a disposizione è la tua voce e il tuo essere.
Il tuo charme, e quanto tu possa risultare interessante.
Se vuoi che l’altro ti conosca davvero o fargli conoscere solo quello che ti piace di più di te rischiando di non aprirti abbastanza.
Secondo voi è possibile indossare una maschera anche quando l’altro non ci vede?
E riuscite ad immaginare come vi comportereste in quel contesto?
Oltre a guardarlo come personale guilty pleasure, mi affascina osservare come i partecipanti si muovono a tentoni, quali sono le difficoltà che affrontano, come ognuno di loro si comporta.
L’aspetto fisico davvero non conta mai, neanche in una percentuale minima?
Stay kind
Love, Monigiri
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