Il futuro e altri mostri

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Il futuro e altri mostri

“[Il colombre] È uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una vita intera, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue.”

Nel momento stesso in cui nasciamo aggiungiamo al mondo un elemento di imprevedibilità in più. Siamo un nuovo fattore, un nuovo agente che contribuirà – per lo più in modo inconsapevole e solo talvolta con coscienza – agli eventi dell’esistenza. Ognun* di noi è presente e futuro in continua collisione. È uno stato difficile da mantenere, anche se non ce ne accorgiamo. Costa fatica. Costanti scelte, un perenne confronto non solo con tutti gli altri esseri umani, ma con anche costrutti sociali, eventi ambientali e, soprattutto, con il tempo, che non ci lascia respirare.

Veniamo generat* di colpo e lanciat* in questa corsa senza riposo e, nel tragitto, scopriamo che qualcun* ha posto degli achievement che dovremmo sbloccare e guadagnare entro un determinato tempo limite. E allora corriamo, ci affanniamo, continuiamo a guardare a che punto sono arrivat* l* altr* perché veniamo mess* in costante competizione anche se magari vorremmo solo fermarci, riposare e magari darci una mano a vicenda. Il tempo scorre e la corsa si fa sempre più impervia: devi sapere cosa vuoi essere, cosa vuoi diventare, quale vuoi che sia il tuo posto in questo grande ammasso di caos e imprevedibilità. Devi esserne cert*. Devi riuscire a dare una forma a quella parte di te che costituisce il futuro altrimenti non sei niente, perché di solo presente non si vive. Ma tu soffri di chinetosi.

Fa tremendamente paura tutto ciò; o, almeno, a me ne fa tanta. Sono a un punto della vita in cui dovrei sapere cosa voglio essere, ma a stento mi riconosco allo specchio quando dimentico gli occhiali. Non so che forma dare alla mia parte di futuro, e ciò mi fa sentire atrocemente incompleta. Sbagliata. In costante debito verso chi mi ha aiutata a ricordare la mia forma ogni giorno.

No longer home inizia un po’ così, con l* due protagonist* che, seduti a guardare il cielo, scoprono di provare entramb* questa sensazione di “incompletezza”, di forma mancata. Eppure, mentre guardano le stelle si fanno una domanda molto semplice: «Ci sarà qualcun’altr*, oltre a noi in questo cosmo, che sta facendo una conversazione identica alla nostra?». Sanno di essere minuscol*, e si sentono in colpa di stare male per una cosa che può sembrare quasi un semplice capriccio.

La scelta di abbandonare quell’accenno di vita che si erano costruit*, quell’illusione di futuro che avevano condiviso, è già stata presa. Non resta che accettarla e andare avanti. Ao allontana da sé qualunque azione o pensiero legato alla partenza: procrastina i bagagli e ignora il proprio dolore, la paura e il malessere che piano piano l* toglie sempre di più il sonno nella speranza che svanisca da solo. Si sente come pers* in una foresta, incapace di orientarsi o di seguire alcuna via.

Bo, invece, si convince di aver accettato la scelta. Il futuro che l* si prospetta è inevitabile, e qualunque azione, qualunque atto di libero arbitrio compiuto nel tentativo di plasmarlo non è altro che qualcosa di illusorio. Schiva rassegnat* ogni pensiero, ogni discorso, ogni tentativo – anche solo dettato dalla tristezza o dalla rabbia – di trovare un modo per evitare di doversi separare da Ao. Si sente ferm*, intrappolat* all’interno di una stazione con un biglietto non obliterato in mano. Ha visto tutt* prendere un treno che l* non è riuscit* a raggiungere in tempo; e ora è lì, sol*. Ferm*.

Così, vagano come fantasmi tra le stanze del loro appartamento, osservando attentamente ogni angolo, guardando con dolcezza la parete da cui la vernice si sta lentamente scrostando per fare posto alla muffa, e il buco nelle piastrelle del bagno da cui ogni tanto qualche topolino fa capo, mandando in confusione i due gatti di casa.

Noi l* muoviamo in questo luogo che diviene il palco della loro paura del futuro. Le pareti scorrono come fondali di una scenografia – agganciati a fili sottilissimi, che paiono potersi rompere da un momento all’altro – i volti sono maschere, e le loro paure e i loro pensieri diventano esseri demoniaci che abitano quelle stanze, ricordando loro perennemente quanto siano priv* di forma e insignificanti.

Tutto ciò che possono fare è avanzare, sperando che, in un modo o nell’altro, tutto andrà bene.

Tra i loro dialoghi emerge qualcosa, però; un percorso mai preso, solo accennato ma mai seguito per via di una strana paura. Ao ha rinunciato da tempo all’idea di dedicarsi all’animazione, perché convint* che ormai sia troppo tardi; mentre Bo osserva le chitarre appese nel salotto, ripetendosi religiosamente che è colpa del tempo se non ha più potuto dedicarsi alla musica. «Non ho tempo.» Possibilità di essere felici accantonate per un tentativo più “sicuro” di plasmare la loro parte di futuro. Hanno avuto paura di accogliere quella che è la gioia del crescere e del plasmarsi, senza condizionamenti e senza timore. Hanno iniziato a scappare dal colombre e non hanno ancora smesso.

Il racconto di Dino Buzzati, Il colombre, sembrava spuntare fuori nella mia testa a ogni linea di dialogo. Ao e Bo – come Stefano Roi, il protagonista del racconto – vedono questo mostro marino e passano l’intera vita fuggendogli, osservando la sua immagine rotta dal movimento dell’acqua e dalla luce del sole, pensando costantemente che, prima o poi, arriverà il momento in cui verranno divorati.

Durante il suo primo giorno sulla nave del padre, Stefano prova una gioia e una felicità immense; quello sarà il suo futuro, ed è pronto a plasmarlo in tal modo. Ma, dalla poppa della nave, vede un’ombra sotto la superficie dell’acqua. Il padre capisce di cosa si tratta ricordando vecchie leggende, e comunica al figlio la sua sentenza: «La tua vita non sarà il mare».

Le paure del padre si innestano nel figlio. Stefano vive così una non-vita, provando una incontrollabile paura verso questo essere. Paura che però non ferma la sua attrazione per il mare.

“Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più grande è l’attrazione per l’abisso.”

Alla morte del padre, Stefano abbandona la vita sicura che si era costruito negli anni sulla terra ferma, e inizia a lavorare per mare, ma sempre osservando l’immagine del colombre dietro di sé.

Giunto in fine vecchio, a un passo dalla morte e “amaramente felice” – perché conscio di aver vissuto sì la vita che voleva, ma nella costante paura di qualcosa che nemmeno riusciva a vedere e di cui non conosceva la forma esatta – va incontro al colombre su una esile scialuppa, deciso a morire tra le sue fauci, lottando. Ma il colombre, stanco anch’esso per i decenni trascorsi, gli consegna semplicemente una perla, dono del re del mare, che avrebbe dovuto portargli gioia, felicità e fortuna. Ormai, però, è troppo tardi per usufruirne.

«Sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua» dice Stefano prima del loro congedo.

Sinceramente, non so cosa io abbia cercato di dirvi o di comunicarvi parlandovi di queste due storie. Giocando a No longer home ho sofferto per la semplicità dei gesti e l’intensità di un dolore che da fuori pare insignificante, ma che diamine distrugge. E, in tutto questo, ho ripensato al racconto di Buzzati.

Mi sto piano piano rendendo conto di non essere la sola a soffrire per questa corsa fuori controllo, di non essere quindi “anomala”. E mentre leggo, quasi quotidianamente, di mie* coetane* che tentano – o portano a compimento – il suicidio dopo aver mentito alla famiglia riguardo la loro situazione universitaria – o lavorativa, o finanziaria – su giornali che, il giorno dopo, occuperanno la stessa pagina con notizie di giovani che conquistano sei lauree in tre anni, lodando la rapidità e svelando che il segreto del loro successo è solo quello di “impegnarsi un po’”, io continuo a provare rabbia e frustrazione per un sistema sociale che si ostina a perpetrare le stesse regole violente, piangendo poi lacrime di collirio.

Non siete sol*, non siete in ritardo su nulla e non siete sbagliat*. Questa corsa in cui ci siamo trovat* partecipanti va percorsa insieme, non individualmente. Vivere in un costante senso di competizione ammala, logora. Siamo tutt* sulla riva dell’oceano a fissare i nostri colombre che ci aspettano; chi prima e chi dopo, ci tufferemo tutt* per andargli incontro. Io, il mio, per ora continuo a fissarlo dalla spiaggia, e magari tra qualche tempo mi bagnerò un po’ le gambe per sentire com’è l’acqua. La pancia ancora no però.

di Ilaria Celli

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