Elogio del rumore
Decine di persone, insieme. Tutti riunite, l’uno accanto all’altra, in un’unica e immensa tavolata. Intorno a loro, un immenso salone si estende vuoto, immenso. La tavola imbandita rende arduo scorgere il volto di chi è seduto di fronte, e l’odore speziato delle pietanze calde crea una nuvola cangiante sotto le lampade al neon. Il silenzio e la modestia servono i contorni ai commensali, mentre una mano estranea si china su uno dei calici e lo innalza, oltre la nebbia odorosa.
La figura prende la parola.
Incredibile. Più vi guardo, e più mi rendo conto di quanto voi siate essenziali. Dopotutto, io sono frutto della vostra singola esistenza, messa in contatto con il prossimo. Perché il rumore è questo: individualità che si incontrano. Che poi l’incontro sia pacifico o meno, poco importa; la loro collisione porta fragore, genera una scossa, inonda il mondo intero di rumore assordante!
Sta per finire un anno, e un altro sta per cominciare. Tra le preghiere dei credenti e gli auguri di soffocato cinismo degli atei, un cerchio si sta per chiudere e un altro si riapre. Credete che tutto ciò avvenga nel più puro silenzio? O, peggio ancora, nell’armonia? Non esiste armonia nello scorrere del tempo o nella natura che lo vive. La musica è armonia quando avvolge l’essere nella sua singolarità; è narcisista, isola da quello che è il mondo in sé. Ma sono io, il rumore, il sommo sovrano della vita e del tempo. Poteste sentire il suono dei corpi celesti come lo percepisco io. Ah! Che scroscio sconclusionato! Che immenso, cosmico, etereo scontro tra identità mastodontiche, e al tempo stesso minuscole e delicate.
Tempo fa uno scrittore che guardava la natura e vi vedeva dolore; io la guardo e vi vedo abili musicisti. Ci fu anche chi, invece, disprezzava il garrito degli uccelli e lodava solo il brusio unisono delle api. Non avete mai pienamente compreso la bellezza della diversità. Come chi ora innalza una ideale purezza della lingua, dimenticando quanto il crollo di Babele fu in realtà una benedizione, e quanto sia importante che le sue macerie continuino a sgretolarsi e a unirsi in questo impasto mosso dal tempo.
Come voi, che qui festeggiate, state fingendo di non pensare al domani, al tempo che si mobilita e si arma? Oppure no, ci pensate, vedendo nel futuro qualcosa che ancora non vi ha deluso, e dimenticandovi che, invece, lo fa istante dopo istante. Ma fate bene; sperate, abbiate già cura del futuro, anche se ancora non vi ha dato nulla! Perché sperare porta alla delusione, e la delusione alla rabbia e, si sa, la rabbia porta alla rivolta. Scendete in piazza, per le strade, e rivendicate il vostro diritto al futuro, di fronte a chi, invece, al futuro non ci pensa! E fatelo inebriandovi di rumore. Che poi, chissà, potrebbe anche non deludervi un giorno, e allora potrete festeggiare.
Chissà come sarà questo nuovo futuro; anzi, chissà come saranno queste vite. Queste individualità che continuano a nascere, entrando nei binari del tempo gridando e disperandosi. Una scomposta polifonia. Scomposta e autodistruttiva, dove l’esistenza del nulla vale più della vita di chi è presente. Un intricato gioco di potere, divieti, obblighi, che privano il prossimo di libertà pur di garantire a pochi il dominio del fragore del mondo. Vengono zittite voci, vengono annegate parti dell’orchestra, segregate e umiliate le più deboli, vengono eretti muri per impedire che il contatto e il rumore si generi ma è tutto inutile, lasciatevelo dire. Io sono sovrano. Il rumore domina e dominerà la vita, perché è esso stesso vita. Non fate altro che ritardare la mia venuta, e rendere più forte il boato che mi preannuncia.
Ma sono parole vuote le mie. So che non potete sentirmi o, meglio, che fingete di non potermi ascoltare. State qui, seduti, a parlare tra di voi e a ignorare ciò che avviene oltre queste quattro mura. Eppure, io tra voi mi sento forte. Mi sento generato e rinvigorito dallo scontro tra chi ha appena scoperto la propria individualità e chi gliela rinnega. Sento il caos di chi si isola dalle conversazioni, cercando di non occupare spazio in questo salone, senza accorgersi che il suo solo essere sfrigola con chi ha intorno come unghie affilate sulla lavagna. Sento la speranza del futuro di chi lo rincorre e lo vede continuamente sfuggire dalla propria mano che genera attrito con chi, ai suoi occhi, è riuscito a farne un cappotto su misura.
Generate il suono di questo mondo. Fate rumore.
Auguri.
La nebbia si è diradata in poco tempo. Il pavimento si è riempito di briciole, pozzanghere di spumante e di bevande dolci, contornate da un tappeto di foglie colorate e stropicciate. Ogni tanto, un pezzo di torrone si incastra tra le fughe delle piastrelle. A tavola non c’è più seduto nessuno. Tutti sono tornati a casa, in silenzio: la pancia troppo piena per parlare.
Domani questa serata non sarà mai esistita.
di Ilaria Celli
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