Non si può giocare tutto, e va bene così
Sembrerà una banalità, una nozione ampiamente nota e neanche da ripetere: non si può giocare tutto. Per quanto sia doloroso ammetterlo, non è possibile videogiocare tutti i titoli usciti e in uscita, neanche investendo interamente le proprie giornate. È, semplicemente, impossibile.
Nonostante questa presa di coscienza, ognuno di noi ha, invano, cercato di smentirla, consumando bulimicamente un videogioco dietro l’altro, senza soffermarsi troppo e senza godersi appieno l’esperienza: l’obiettivo era il numero di giochi terminati a fine anno come il contatore delle kill alla fine di una partita in qualsiasi sparatutto (in fin dei conti quello si guardava nella frenesia della modalità instagib). Nessuna analisi o filosofia di sorta, men che meno emozioni ed esperienze. In fondo, anche questa rappresentava una gigantesca medaglia sul petto in una eterna competizione con altri videogiocatori su chi ne ha di più e, di conseguenza, l’attestato come maggior conoscitore del medium. Un competizione tossica, figlia di una ricerca spasmodica di una performance anche nel consumare opere d’arte, per rendersi conto, solo dopo, che tutto ciò ha portato unicamente a cinque minuti di gloria e a nulla di più. Non posso negare di avere avuto questa forma mentis, conosco pochissime persone che scientemente si sono sempre distaccate da questa modalità di consumo e, in qualche modo, le invidiavo. Ma una cosa mi ha salvato: le riviste.
Leggere articoli e recensioni è stato, ed è tuttora, un toccasana, la maledetta tachipirina 500 che se ne prendi due diventa 1000. Una preadolescenza fatta di Giochi per il Mio Computer, SpazioGames ed Everyeye (all’epoca realtà emergenti).

La copertina del numero 101 di Giochi per il Computer, con un’immagine tratta da Star Wars: Republic Commando
Quando ero più piccolo, in piemontese si dice gagno, avevo una voglia incredibile di giocare ai titoli nuovi, ma l’hardware in mio possesso non era al passo con i tempi e non avevo nemmeno la console all’ultimo grido. Dovevo per forza trovare un altro modo per arrivare a quella conoscenza senza dover spendere un’ingente quantità di soldi e di tempo. Così, incappai nelle recensioni, negli approfondimenti, negli articoli su internet e sulle riviste cartacee, leggendo gli elaborati di persone con cui adesso, fortunatamente, collaboro. Avevo finalmente accesso a quella conoscenza e passavo diverso tempo a premere play per le video recensioni e a leggere. Mi facevo un’idea tramite un’esperienza mediata dalla scrittura, sicuramente più razionale, ma comunque utile alla mia crescita personale e lavorativa. Del videogioco mancava tutto, mi sembra ovvio specificare che non sostituisce l’esperienza: non è come vivere quel mondo virtuale, ma permette ugualmente di affacciarci alla finestra di quel mondo e di dare un’occhiata al panorama.
A questo punto è lecito chiedersi come avvicinare i lettori curiosi, soprattutto visto il costo elevato dei videogiochi. E’ vero ci sono tantissimi titoli free-to-play rispetto a un tempo, ma è anche vero che moltissime opere videoludiche sono a pagamento, o comunque richiedono un hardware aggiornato per poter girare senza intoppi. Insomma, il dio denaro torna a far danni e con i videogiochi è la prassi, sin dalla nascita.
In questi mesi, nella mia bolla social è girato un dibattito aperto sul valore delle recensioni, sul funzionamento del sistema in generale e su cosa si può fare per rendere tutto più utile ai lettori, ma anche per salvaguardare la salute del redattore e per valorizzarne le capacità e conoscenze. Si tratta di un argomento che rispunta fuori di tanto in tanto e che rimane sempre una chiacchiera di corridoio tra chi lavora nel giornalismo videoludico: per uscire al day one o nelle prime settimane, molti giornalisti finiscono il gioco velocemente e scrivono un articolo altrettanto velocemente. È vitale pubblicare il prima possibile per essere tra i primi risultati delle ricerche e prendere il tanto agognato premio dall’algoritmo di Google. Nulla di tutto ciò è sano, ma questa è una verità lapalissiana.

Deathloop, Arkane (2021)
Nei mesi scorsi mi sono soffermato su questo argomento, trovando un curioso articolo pubblicato su Forbes nel lontano 2012, in cui veniva proposto un approccio leggermente diverso dal classico a cui siamo abituati. Il fenomeno di cui parlavo all’inizio, in quest’articolo viene definito binge-gaming, esattamente come il binge-watching con le serie Netflix; significa giocare un videogioco dietro l’altro, correndo affannosamente per consegnare una recensione o per saltare immediatamente al titolo successivo come l’idraulico con i baffoni salta da un cubo a un altro con il pugno alzato. La parola inglese Binge significa proprio abbuffarsi o mangiare smodatamente.
Erik Kain, autore dell’articolo, racconta la sua esperienza e di come una formula “episodica” delle recensioni (recensioni a episodi) fosse stata a lui utile nello snocciolare l’argomento e nel raccontare il videogioco con tempi dilatati e comodi. Lui stesso ammette che questo contenuto potrebbe non essere adatto a tutti, né per chi lo scrive né per chi lo legge, ma da questo spunto si può tranquillamente partire per un ragionamento più ampio. Bisognerebbe sperimentare nuovi modi di raccontare i videogiochi, spezzare il loop del sistema e concedere alternative. Le recensioni classiche vengono lette e sono una tipologia di contenuto che molte persone cercano, perfino alcuni redattori si trovano comodi nel farle. Quindi, non si parla di cancellare o sostituire, bensì di fornire un’alternativa per variare il panorama e permettere a ognuno di trovare il proprio modo di esprimersi che più si confà ai suoi bisogni di lettura e di creazione contenuti. Il videogioco è un medium complesso e sono, quindi, complesse la sua analisi e la critica.
Una cosa che mi ha sempre affascinato è la narrativa tratta dai videogiochi, il racconto di alcuni aspetti del gioco e della storia, in grado di fornire non soltanto un assaggio della scrittura, ma anche una visione molto più intima di come un giocatore può aver vissuto un determinato momento del gioco. Le storie più belle sono quelle create dai giocatori: la narrativa emergente è l’oro colato di questo medium, soprattutto negli MMO. La morte di Lord British, avatar di Richard Garriott, è una storia che ha cambiato il mondo di Ultima Online, sviluppato peraltro dallo stesso Garriott. Ma senza andare troppo indietro agli anni ’90, le situazioni che si creano nelle gilde, nei raid e nei dungeon, sono storie che vale la pena raccontare e che appassionano i lettori.

Uno screenshot del muro di fuoco che uccise Lord British
Utilizzare la scrittura romanzata e creativa per creare un contenuto coinvolgente, potrebbe essere interessante, come ad esempio un giornale di viaggio fatto di commenti brevi o un diario giorno per giorno; persino il giornale britannico Telegraph, conosciuto ai più come il “Torygraph” visto il suo stampo editoriale conservatore, ha un editor che ha pubblicato il suo diario con il racconto dei primi sette giorni su Deathloop.
Non voglio mettere troppa carne al fuoco, il discorso è complesso e sono sicuro che non verrà risolto in questa finestra di dibattito concessa dall’articolo del Washington Post, che ha scatenato la discussione con la sua eco. Ci sono modalità variegate con le quali si possono creare contenuti che parlano di videogiochi in modo innovativo e senza richiedere la celerità nella recensione al giorno dell’uscita. Per questo pezzo mi sono unicamente soffermato sulla creazione di un contenuto scritto, senza menzionare chi sta già facendo questo lavoro con video, podcast (con Tre PNG avevamo svolto un lavoro simile) o appuntamenti di discussione sulla falsa riga di un club del libro. Giocare e scrivere velocemente non ti permette di godere di ciò che fruisci, né di rifletterci sopra come si dovrebbe fare con ogni opera d’arte. Soprattutto se si tratta di titoli che occupano molto tempo per essere completati e compresi: l’analisi politica e artistica che si può fare con giochi del calibro di Disco Elysium, Golf Club Wasteland ed Essays on Empathy è immensa, c’è bisogno di tempo per studiarli con cura.
Insomma, scrivo questo pezzo nella speranza che ci si possa armare di un sentimento di cambiamento e proporre nuovi modelli, soprattutto nel giornalismo mainstream. Oppure, continuiamo a vivere nel loop, facendo finta che i rischi non vi siano, e che sia tutto come deve essere. Non si può giocare tutto, e da qualche parte è giusto colmare le proprie lacune; non si può giocare di fretta per passare subito ad altro e, soprattutto, non si deve star male per consegnare al più presto una recensione. Valorizziamo lo stile di ognuno e la sua unicità, nei tempi che più gli sono necessari.
di Damiano D’Agostino
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