La pazienza e il fallimento
Ci sono due modi di cucinare.
Il primo è pura sopravvivenza. A volte vorrei non farlo nemmeno, prendo la prima cosa che capita e mi sfamo col minor dispendio di energie possibili.
Il secondo è cura.
Metto su una playlist rilassante, apro il frigorifero e prendo la zucca dalla buccia ruvida che mi scruta dal secondo ripiano. La metto sul bancone e, a fatica, la taglio a metà. Il forno è già acceso.
A testa in giù, un po’ di timo e la lascio cuocere per quel tempo lunghissimo che non mi concedo mai. Intanto la musica continua ad andare di sottofondo e io preparo gli altri ingredienti in fila sul bancone. Ordinati, così come non è la mia cameretta e così come raramente sono i pensieri. Il timer gira ma quel rumore si mescola alla musica e mi culla.
Cucinare è un tempo tutto mio.
Negli anni, ho alternato periodi in cui la passione per la cucina era più intensa, a periodi più frenetici in cui stavo lontana dai fornelli perché non avevo tempo per cucinare. Una cosa che ho imparato, infatti, è che il segreto di ogni ricetta è la pazienza.
Abituata a fare e pensare mille cose contemporaneamente, mi lascio cullare dalla sensazione di fare con calma, preparare gli ingredienti uno alla volta, di seguire ogni passaggio con cura, senza affannarmi per rincorrere il tempo.
Cucinare è l’arte di avere pazienza: in una vita che mi spinge sempre ad andare più veloce, a riempire i vuoti, a non stare ferma, cucinare mi costringe a rallentare. Fa scorrere il flusso del tempo più lentamente. Un minuto in più fa la differenza, in cucina. Non porre la giusta attenzione a un singolo semplice passaggio, fa la differenza anche quello.
Io ho un pessimo rapporto con la pazienza: voglio tutto subito, non sopporto le attese. Pur sapendo che alcune cose hanno semplicemente bisogno di tempo, io quel tempo lì vorrei eliminarlo e arrivare subito alla fine. Concentrata sempre più sul risultato che sul percorso, negli anni, a volte, questo mi ha portata ad alimentare ansie e aspettative in qualsiasi ambito della mia vita. E proprio per questo la cucina rimane una sfida e insieme un momento di piacere ritrovato.
Ma un’altra cosa ho imparato in cucina: cucinare è affrontare i fallimenti. Anzi, ancora di più: concedersi di dedicare del tempo alla possibilità di fallire.
Ogni volta che decido di provare una ricetta nuova – specialmente con i dolci – so già che potrebbe venire male. Metto in conto che potrei sprecare un intero pomeriggio. Tutti quei piatti da lavare, poi, per una torta secca, dei biscotti bruciati, una pasta che era meglio se facevo la solita.
E quando mi concedo di poter fallire è davvero un tempo fine a sé. Un tempo per me e me soltanto. Fuori dalla logica della rincorsa, del dover fare, degli obiettivi, della perfezione, della produttività. Ma non è facile farlo, perché l’idea dello sprecare il tempo, di dedicare del tempo (così prezioso che lo ripeto, lo ripeto, lo ripeto) a qualcosa di imprevedibile, incontrollabile, nuovo, mette agitazione, fa sentire fragili, in preda a possibili emozioni negative.
Ma le emozioni negative vanno curate con la stessa pazienza di quelle positive. Bisogna allenarsi ad accoglierle e farlo in un luogo sicuro, in un tempo sicuro, come la cucina di casa, è forse un modo per volersi un po’ più bene.
Che se anche si finisce per piangere per una teglia di biscotti bruciati, non importa, e in quel non importa sta tutto l’amore che possiamo darci e possiamo dare agli altri.
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