Ticchettio di carta

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Ticchettio di carta

Io vivo nella perenne sensazione di non avere tempo, e di sprecare quello che mi viene costantemente dato. Rincorro una performatività che non posso raggiungere – in realtà, non saprei nemmeno delinearla – e accumulo impegni, progetti, idee, lavori, nel tentativo di zittire quel ticchettio fastidioso, o almeno di dargli un senso. Un ammasso di fogli sparsi, post-it scarabocchiati, un’agenda colma di graffette che intrappolano ritagli di carta con frasi il più delle volte lasciate a metà, prive di un vero e proprio riferimento. Eppure, il tempo io lo calcolo così, con questo ammasso informe di elementi incompleti.

Chissà cosa sarà un giorno tutto ciò. Chissà se prima o poi riuscirà ad avere una forma, o se continuerà a crescere fino a schiacciarmi. Chissà poi perché continuo a creare queste piccole testimonianze del mio tempo sprecato. Chissà. Non sono ancora nulla, eppure il mondo intero mi grida che sono in un’età in cui dovrei già essere qualcosa. Ma più cerco di capire cos’è questo qualcosa, e più i ritagli si accumulano. Ha un senso tutto questo mio rimuginare sconclusionato, ve lo garantisco. O, almeno, spero ce l’abbia.

Sto giocando a Finding Paradise, il secondo capitolo della serie creata da Kan Gao. Una serie videoludica che tuttavia appare come un lungo spettacolo, un’opera teatrale divisa in più atti che ti portano – oscillando tra il riso e il pianto – a scandagliare tematiche quali il rimpianto, i desideri dell’infanzia, il senso di incompletezza e vuoto dato da qualcosa che non si è riusciti a realizzare, e il timore dell’età adulta come sipario per le proprie ambizioni. Il dolore di non aver agito per il bene di chi amiamo, perché forse in realtà non li abbiamo mai veramente capiti, o la paura di scoprirsi ingrati perché ci si sente insoddisfatti nonostante l’amore che ci è stato dato e la felicità di cui abbiamo goduto. Insomma, Kan Gao sa come entrarti nelle ossa tramite delle creazioni in pixel art. E così io ora sono qui, ancora nel bel mezzo del gioco, e mi trovo a pensare a quali saranno i miei rimpianti, o se mai ho avuto davvero un desiderio dirompente, che magari ho lasciato svanire per non so quale motivo. Così fisso tutti questi fogli sparsi, tutti questi minuti della mia vita stipati in una moleskine 18 mesi alla quale mancano solo pochi giorni prima di essere sostituita. È un orologio di carta, una bomba che fa scorrere il tempo con un fruscio delicato, e che riesce a non esplodere solo grazie a quel sottile elastico smangiucchiato agganciato in quarta di copertina.

Finding Paradise

È buffo il tempo. Sì, buffo, perché è qualcosa che ti porta a ridere per la sua stranezza, per il suo essere qualcosa di tremendamente bizzarro. Un riso che però può essere anche nervoso, disperato e dolorante. Ed ecco che gioco quindi a Finding Paradise e rido per le battute comiche, ma anche per quella rassegnazione di fondo a quel ticchettio, che si fa sempre più buffo. Come fanno tutti gli altri a gestire questo rumore di sottofondo, come fanno a mettere in ordine i loro fogli sparsi? Il mondo è stato travolto da un episodio di epifania mentre io sono stata lasciata lì, ferma all’incrocio, a guardare tutti che svoltano con sicurezza e con le idee chiare sul percorso che il tempo li costringe a fare?

“Troverai il tuo equilibrio.”
“Vedrai che capirai cosa essere.”
“Staccati da quella confezione di biscotti.”
“Vedrai che terminati gli studi capirai come muoverti.”

Frasi fatte, che se guardate bene hanno davvero molto poco senso. Veniamo educati a pensare al nostro futuro, a fare progetti a lungo termine, a preoccuparci a 16 anni di ciò che saremo a 50, a decidere fin da subito come vorremo che, un giorno, qualcuno ci guardi e ci consideri. Come si può gestire tutto ciò? Come si fa a calcolare tutto? Come può una vita intera stare su uno schema ben preciso se nemmeno 18 mesi della mia vita pesano quanto un’anguria?! Esistesse realmente la Sigmund Agency – l’agenzia di cui fanno parte i protagonisti delle storie di Kan Gao, e che si occupa di modificare i ricordi di una persona in modo che muoia senza rimpianti, e con l’illusione di aver vissuto la vita che desiderava – voi cosa fareste? Accettereste di morire con una vita parzialmente illusoria nella mente, ma sereni e senza fantasmi di ore mal sfruttate?

Sarebbe qui il caso di ribaltare il discorso, e dire che non esiste un tempo mal sfruttato, che è un valore che siamo portat* ad attribuire secondo condizionamenti esterni; gli stessi che ci vorrebbero con uno stipendio fisso a 23 anni e una casa di proprietà a 24. Gli stessi condizionamenti che se poi di anni ne hai 29 e non hai ancora completato il percorso universitario ti portano a nascondere il tuo malessere, e a gettarti dal ponte di Stalingrado di Bologna.

Il futuro non è sempre migliore del passato. I giorni che verranno non saranno certamente migliori di quelli che abbiamo vissuto; tuttavia guardiamo a questi ultimi con nostalgia e gli altri con speranza e gioia. È il presente il problema; non sappiamo bene cosa farci, come gestirlo. Leopardi ha scritto un’intera operetta morale a riguardo, e il povero venditore di almanacchi non si è reso conto che il passeggero non trarrà conforto da quel nuovo e bellissimo almanacco che è riuscito a vendergli.

Eppure, io tra poche settimane prenderò una nuova agenda, un mio nuovo almanacco in cui spero di incastrare fogli che testimoniano un tempo meglio vissuto, una nuova porzione della mia vita che non riesco a non riempire di aspettative. Chissà se saprò cosa essere in quella nuova trappola di carta, se avrò anche io il mio momento di epifania, se ci sarà un giorno che riempirò di annotazionicapaci di segnare un momento chiave, di svolta, che ricorderò non come rimpianto, ma come formazione di quella cosa attualmente informe che è “me”.
Però, a pensarci bene, i rimpianti cosa formano?

di Ilaria Celli

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