Capitolo 5 – IL DIPINTO DI UN ANGELO

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Capitolo 5 – IL DIPINTO DI UN ANGELO

«Che cosa sta succedendo qui?»
Lo sguardo di Jack era fisso su Sanctius, probabilmente era così che guardava i clienti attaccabrighe prima di sbatterli fuori a calci. Il vampiro teneva Abraham sotto braccio, la mano destra appoggiata al petto del vecchio. Non sembrava in pericolo, ma di certo non stava bene. Dov’era il cuore?

Tra i 60 e i 100 battiti al minuto, questa era la frequenza del cuore di un umano, almeno era quanto aveva letto sui libri. Come diavolo fanno? Quanto deve essere fastidioso avere un maledetto tamburo che continua a dimenarsi dentro le tue stesse viscere? E non solo, gli umani sono un concentrato di biologia impaziente, sempre a fremere, vibrare, gonfiarsi, distendersi e contrarsi. Forse era quello che piaceva ai vampiri, quell’apparente agitazione infinita che loro non avrebbero mai avuto, quella “vitalità”.
In quel momento Sanctius avrebbe giurato di sentire quel dannato tamburo, ma non solo nel petto. In testa, in gola e pure nei timpani. Sarà una percezione, nulla di più, anche il suo essere mezzosangue non poteva arrivare a tanto. Il tamburo del vecchio almeno… no, non c’era. Aspetta è più a sinistra, come le immagini sui libri. Non si sente, com’è possibile?

«Polidori!»
La voce di Jack lo riscosse, si era avvicinato di un paio di passi.
«Lascialo Polidori, non lo ripeterò.»
«Aspetta Jack, c’è qualcuno in casa, lo hanno aggredito, non so…»
«Finiscila di dire stronzate, ci ho pensato e ripensato, mi sembravi uno a posto ma… quel qualcosa, ce lo avete tutti, nessuno escluso, voi…»
«Noi vampiri?»
«Voi assassini.»
«Che cazzo stai dicendo? Ti sembro uno che sta per ammazzare questo vecchio? Non gli va più il cuore, non lo sento, è così che si capisce che voi siete… a posto, no?»
«Il vecchio è più duro di così, sono stato suo apprendista per anni.»
«E allora dovresti sapere che ormai è una carcassa, dobbiamo portarlo da qualcuno.»
«E dove? Gli ospedali ormai li avete chiusi tutti e la clinica per umani più vicina è a venti chilometri.»

Sanctius guardò il vecchio cacciatore, non poteva finire così, doveva almeno guardarlo negli occhi quando avrebbe lasciato questo mondo. Nel frattempo non si accorse che ormai Jack era a neanche un metro da lui.
«La questione finisce qui e ora.»
Sanctius fece in tempo ad alzare lo sguardo solo per vedere le nocche di Jack schiantarsi sulla sua guancia.

Sanctius perse la presa su Abraham, che crollò a terra scomposto, mentre il giovane vampiro si schiantò sulla parete del corridoio, perse l’equilibrio e volò su un mobiletto basso. Sentì lo spigolo di legno dritto tra le costole ed ebbe giusto il tempo di sperare che almeno i mobili non fossero di frassino. Sanctius si tirò su a malapena e vide Jack avvicinarsi a grandi passi, il paletto alzato sopra la testa, il volto una maschera rossastra di rabbia e adrenalina. L’arma scese come un missile, ma Sanctius riuscì a buttarsi di lato, rotolare e rialzarsi giusto all’ingresso del salotto. Doveva tenere gli occhi sul barista, ma ancora non era sicuro di chi ci fosse in casa, ammesso che ci fosse qualcuno. Con una rapida occhiata il ragazzo controllò la stanza, essere attaccato alle spalle era l’ultima cosa che gli serviva. Nulla, tutto al suo posto, come aveva fatto il vecchio a finire moribondo così, dal nulla? Ok, era umano, ma potevano crollare così all’improvviso?

Aveva speso troppi secondi. Jack era tornato alla carica, ora il paletto tenuto davanti a sé come una lancia. Sanctius scartò di lato e il barista per poco non inciampò sulla poltrona di Abraham, ma almeno incespicò, dando il tempo a Sanctius di afferrare un’arma dalle innumerevoli rastrelliere a muro. Ignorò i crocifissi, i paletti e le acquasantiere, però trovò uno stiletto lungo e affusolato, pieno di decorazioni angeliche. Lo afferrò al volo e si girò verso Jack, che lo fissava con i suoi occhi grigi, che però per Sanctius sembravano due braci accese. E forse era così, sentiva puzza di bruciato. Cazzo, lo stiletto era d’argento. poteva sentire la pelle sfrigolare e soffrire. Non ci voleva, però poteva resistere, almeno per un po’.

Sanctius non era un combattente, ma sapeva difendersi. Iniziò a tirare delle rapide stoccate verso Jack, che schivò abilmente nonostante l’età. Tuttavia i sensi superiori di Sanctius si erano messi in moto, gli affondi si fecero fulminei e colpirono Jack senza pietà, facendogli perdere la presa sul paletto. Sangue luccicante iniziò a sgorgare dal collo e dall’avambraccio del barista. Sanctius rallentò, quel sangue era così luminoso, vibrante, vivo. No, no, tutti ormai riescono a controllare la fame, sarà la tensione dello scontro, era finita l’era dei mostri succhiasangue. Jack fu costretto ad arretrare verso la parete opposta e con un ultimo scatto riuscì ad allontanarsi dalla lama e a buttare davanti al vampiro la poltrona di Abraham. Sanctius esitò un attimo, poi prese lo slancio e saltò sulla poltrona, lo stiletto stretto con entrambe le mani, ustionate e doloranti. Jack fece un mezzo sorriso, afferrò un’acquasantiera appesa al muro al suo fianco e la scagliò verso il giovane. Sanctius poteva ingannare la morte ma non la gravità.

L’ondata di acqua consacrata lo colpì in pieno e lo stiletto lasciò le sue mani. Sanctius cadde, ma non lo percepì neanche, sentiva solo il tintinnio dello stiletto che rimbalzava sul pavimento, oltre alle sue stesse urla. Si guardò il braccio sinistro, ormai un ammasso di ustioni e carne viva. non si sentiva più la faccia, cercò di raggiungere lo stiletto con l’altro braccio ma non ci riuscì, non riusciva a distinguere quanto lontano era caduto, di sicuro un occhio era andato. Ci sarebbero voluti mesi per guarire completamente.

Ancora il fottuto tamburo, una serie di percussioni basse e gutturali che lo riempivano. Come sulle navi dell’antichità, piene di schiavi incatenati ai remi, che dondolavano senza sosta, seguendo un ritmo arcano e pesante, diretti chissà dove in un mare scuro e freddo. Quegli umani sentivano più i tamburi nel loro petto o quello del proprio carceriere? Doveva smetterla di farsi domande così stupide, soprattutto quando stava per morire. Cerco di rimettersi in piedi ma la gamba sinistra non ne voleva sapere, quindi si accontentò di stare in ginocchio, come in quei vecchi dipinti umani che raffiguravano angeli e santi che rispondevano alla chiamata divina. Alzò lo sguardo e vide Jack, torreggiante, con in mano il paletto, le nocche bianche per lo sforzo della presa.

«Fermi luridi pazzi!»
I due uomini si voltarono, all’ingresso del salotto c’era Abraham in ginocchio, ansimante. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la moglie, Brigitta, stretta tra le mani. La corda tesa, il dardo caricato. La punta d’argento luccicava di un riflesso inquietante.

Testo: Guglielmo SUDATI
Copertina: Lorenzo DUINA
Logo: Elia FELISI

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