Tra marketing e reale conquista sociale
Non vi sono dubbi sul fatto che il videogioco, inteso in senso lato, sia in termini di morale un ambiente piuttosto permissivo. Del resto, per molti anni esso ha subito, e in qualche misura subisce ancora, forme di discriminazione o di pregiudizi nei confronti dei suoi membri.
Proprio per questo, il videogioco è sempre stato uno dei medium più suscettibili alle conquiste sociali ed alle mutate concezioni della società, specie in tema di discriminazione. Peraltro, il videogioco offre questa caratteristica fondamentale che è l’interazione, ed è per questo che, a partire dagli anni 2000, il tema dell’omosessualità è spesso stato inserito all’interno di contesti narrativi, spesso anche permettendo al giocatore di impersonare un personaggio omosessuale. Si pensi, a tale proposito, a tutte le varie romance che i giochi Bioware hanno proposto nel corso del tempo: ogni titolo ha sempre figurato anche un’alternativa omosessuale. Più avanti col tempo, le istanze transgender hanno cominciato a fare capolino con forza all’interno della nostra società, e così anche i videogiochi si sono adeguati. Si pensi, in questo senso, alla controversa decisione di introdurre in Siege of Dragonspear, l’espansione del primo Baldur’s Gate uscita nel 2016, un chierico transgender chiaramente messo lì come riferimento alla controversia del Gamergate, quella campagna online di molestie sessiste rivolte a diverse sviluppatrici e giornaliste del settore.
Già, perché esiste una forte apparente contraddizione tra un mondo tipicamente maschilista, quale è storicamente quello del videogioco, e la volontà sempre più spinta di essere alla pari con i temi sociali più discussi in quel momento. Tuttavia, da questo discendono numerose conseguenze, che non sempre sono unicamente positive.
Intanto, è facilmente sostenibile che esista un interesse economico dietro la creazione di strutture, personaggi e trame legate ai temi di inclusività ed alle problematiche di genere ed orientamento sessuale. I videogiocatori e gli sviluppatori, per anni reietti, sembrano le figure ideali per portare in avanti i temi di altrettante persone che per lungo tempo sono state reiette come loro.
Il problema è che, ad una approfondita analisi, verrebbe da dirsi “oh, magari se fosse così!”. Perché la realtà dei fatti è ben diversa: difficilmente le trame ed i personaggi introdotti nei videogiochi sono effettivamente qualcosa di completo, complesso e coscienzioso. Al contrario, spesso si tratta di macchiette: elementi messi lì perché era importante, per numerose questioni esterne al videogioco. In tutti i giochi Bioware (da KOTOR a Mass Effect), ad esempio, il tema dell’omosessualità è unicamente relegato alla romance perseguita dal giocatore, e non ha alcuna attinenza con la trama principale. Non c’è alcun interrogativo legato alla concezione sociale di un amore omosessuale, e tutto è di fatto relegato alle preferenze che il giocatore ha sotto le lenzuola. Non certo una grande analisi del tema.
Lo stesso, con ancor più forza, può dirsi di Cyberpunk 2077: un titolo che avrebbe dovuto essere la summa anche di certi tipi di analisi, forte della narrazione eccellente cui CD PROJEKT RED ci aveva abituati. Il gioco, si sa, uscì fuori una ciofeca, e l’unico indizio in tema di problematiche di genere fu dato dalla possibilità di innestare sul proprio personaggio diversi tipi di genitali. Dico “innestare” perché di questo si tratta: di creare un personaggio liberamente e poi appiccicarci sopra una vagina o un pene (selezionabile lungo o corto, peraltro), oppure niente. Invece di porre un interrogativo sensato sulla possibilità di impersonare perfino un personaggio transgender, ed analizzare, per esempio, le problematiche sociali cui avrebbe dovuto fare fronte, l’unica possibilità data al giocatore era quella di ridere di personaggi grotteschi, senza alcuna conseguenza sulla trama del gioco, e senza alcuna conseguenza nei confronti dei temi reali di disagio sociale trasposti nel videogioco.
Un’operazione di marketing: uno specchietto per le allodole. L’illusione di potersi creare un personaggio transgender o omosessuale e vivere le avventure con un “quid” di diverso (e di grande interesse) è caduta dinnanzi al marketing spinto, al grottesco economico, laddove trailer e immagini venivano rilasciate ed a volte volontariamente leakate così che il pubblico potesse guardare le opzioni sui genitali e dire “quanto è avanti questo gioco”, oppure fare polemica e portare pubblicità gratuita ad un titolo senza nulla da dire.
Quest’ultima è proprio la chiave della questione: finché i videogiochi continueranno ad occuparsi dei temi di genere e di inclusività attraverso la creazione di macchiette per il marketing, nulla di buono verrà fuori dalla loro analisi. In quanto opere d’arte, anche i videogiochi potrebbero legittimamente dire la loro sull’andazzo della società, ed invece spesso la loro voce non solo è silenziata, ma è volutamente distorta dalla volontà di inserirsi in un solco economicamente proficuo ed apparentemente “progressista”, quando la verità è che è invece l’esempio più lampante di conservatorismo ed ignoranza: un’ignoranza ancora più fastidiosa, se si pensa a come, sino a pochi anni fa, gli stessi videogiocatori facevano parte di una categoria socialmente bistrattata, e potevano pertanto fare leva sulla propria esperienza per tirare fuori qualcosa di buono. Ma nulla è stato imparato.
di Giacomo Conti, MMO.it
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