Se non ti piaci, cambia
Se non ti piaci cambia
Se non riesci a cambiare, accettati, è ciò che sei.
E se non ci riesci ancora?
Non lo so, immagino si cresca, si cambi, a un certo punto succeda qualcosa di magico per cui ti vuoi bene così come sei. All’inizio è l’adolescenza, poi superi i 20, i 25, i 30… E ora a quasi 34 anni ti guardi ancora col disprezzo e l’insicurezza come se non fosse passato un giorno. Se non che sei sempre più vecchia, e quindi è pure peggio.
Però no, non è vero nemmeno questo.
Perché ci sono giorni in cui stai bene con chi sei, con chi sei diventata e con l’idea di dove potresti arrivare ancora.
È questo che significa “accettarsi”?
Accettarsi non è una questione di genere, età, provenienza, accettarsi è universale.
E accettarsi non è semplice perché siano complessi.
Ma per essere completi nella nostra complessità, dobbiamo prima capirla e accettarla.
Se non accetto qualcosa di me, non rinnego tutta me stessa.
Se non mi piace una parte di me, non detesto ogni mia parte.
Se ho fatto un percorso di anni per conoscere e accettare chi sono, e so che non ho finito e non finirò mai, non significa che sia l’unica parte di me.
A volte serve uno specchio per guardarsi, a volte lo specchio è qualcun altro, che ti guarda e ti vede per come sei. E continua a ripetertelo, di nuovo e di nuovo, finché non diventa una cantilena che nemmeno ascolti. Perché è assurdo che qualcun altro ti veda meglio di come ti vedi tu. Diamine, nessuno passa più tempo di me con me, come può essere che qualcun altro ne sappia di più?
Saprò bene che se sono così, sono così e basta. Non serve che tu mi dica che devo fare altro.
E parte la rabbia.
Sono stata così tanto arrabbiata per così tanto tempo con chi mi diceva che se qualcosa non andava, dovevo cambiarla. Non perché non fossi d’accordo, ma proprio perché ero dannatamente d’accordo. Pensavo: “Che bisogno hai di dirmelo? Non vedi che già lo faccio continuamente?! Vivrei molto meglio se non lo facessi e mi facessi scivolare tutto addosso accettando quel che non va, spegnendo il cervello e via!”
Il vero problema in realtà, è che non c’è un solo problema. Non c’è un solo modo per affrontare le cose. Non c’è un solo modo per interpretarle e allo stesso tempo, non può esistere un solo modo per accettarle.
Accettare non vuol dire farsi scivolare addosso le cose.
Grazie al cavolo, direte voi. Ma non è così scontato. O almeno non per me e io mi auguro che a voi non succeda, perché a volte ci illudiamo di essere molto più avanti, superiori, altisonanti di quanto non siamo, e finiamo per confinare in un cassetto un qualcosa. Be’, nulla contro il confinare le cose nei cassetti, per carità. Il guaio arriva quando quel che confiniamo non è più una singola cosa, ma una categoria di cose. E inevitabilmente, una categoria è fatta da una molteplicità di elementi, i quali a un certo punto non ci staranno più nel cassetto. In questo modo il cassetto è destinato a rompersi o a esplodere, scegliete la metafora visiva distruttiva che più ci aggrada, ma quello succede.
Come fai a capire quando una cosa l’hai accettata e quando invece l’hai messa via semplicemente, in un cassetto che prima o poi strariperà?
Chiediti come ti fa sentire parlare di quell’argomento. Lo affronti serenamente o devi morderti la lingua o non sai cosa dire o ti senti a disagio? Sono tutti segnali che c’è qualcosa che non va.
Vale per ogni cosa, anche la più semplice, banale, superficiale. Soprattutto quelle che riteniamo semplici, banali, superficiali, oserei dire.
Io ho fatto così col mio corpo tutta la vita. Non che ora abbia risolto, sia chiaro. Ma per darvi un esempio pratico, ho sempre detto che non mi interessava niente del mio aspetto. Ho messo nel cassetto la categoria dell’aspetto fisico, ma in un cassetto furbo, senza etichetta, per fregarmi per bene; perché certo non sono trasandata, mi piace truccarmi, mi piace mettermi i vestitini carini, quindi il mio cassetto è imbellettato proprio bene.
Eppure ogni volta che non volevo mettermi in costume, o non volevo mettere un vestito corto, o tenevo i collant con 35 gradi all’ombra, quando qualcuno mi chiedeva “Perché?”, la mia reazione era più o meno sempre un, a volte educato, a volte esplicito: “Fatti i cazzi tuoi”.
Perché è una mia scelta, cosa vuoi saperne, ma dimmi te se bisogna essere così superficiali? Il problema è tuo che chiedi, non mio. Io non ho un problema, non può essere questo il mio problema. Non ho problemi di accettazione di niente, io.
Ho la mente aperta, io.
Poi ho capito che non era così: non so come si arrivi a un punto di rottura, nemmeno a un punto di guarigione, ma posso dire che dobbiamo volerci bene, a noi stessi prima di tutto, e ascoltarci.
Ascoltiamo il nostro corpo che vuole più attenzioni, non saremo superficiali. Noi in fin dei conti, siamo tutto ciò che davvero abbiamo.
Dobbiamo voler bene alle unghie dei piedi come alle ciglia degli occhi.
Dobbiamo ascoltare il nostro cuore se stiamo facendo qualcosa che detestiamo e non la sopportiamo.
Dobbiamo ascoltare la nostra anima se ci dice di seguire una direzione che ci può rendere felici.
Dobbiamo ascoltare la nostra ragione se ci consiglia di imparare più cose, anche se abbiamo settantordici anni, perché è quello che vogliamo e se lo vogliamo, significa che ne abbiamo bisogno. E se soddisfiamo un bisogno, saremo felici.
Costa fatica? Sì.
Ma non è meglio far fatica per ascoltarsi, capirsi e ottenere dei veri obbiettivi, invece di sacrificarsi una vita intera per rincorrere una richiesta che viene dall’esterno, dalla cosiddetta “società”?
Certo, la società ci dà qualcosa di pronto da raggiungere. Almeno non c’è la fatica di riconoscere un obiettivo proprio, perché per capirlo occorre tempo. E noi di tempo non ne abbiamo mai. E se invece spendessi più tempo a capire cosa voglio davvero? Che male ci sarebbe? Nel frattempo imparo, mi godo il viaggio, e capisco dove andare a parare. E quel finale sarà il mio, quell’obiettivo mi renderà felice. Perché alla fine sono io l’unica persona in grado di rendermi felice. Ci sono anche gli altri, l’amore, gli amici, i successi, le fatiche, gli insuccessi, è tutto parte della vita: ma è parte di me, e io non devo mai perdere me stesso nella ricerca di qualcosa fuori da me.
E non bisogna aver paura di ricredersi, io non credo di aver capito niente, ma ho capito questa piccola verità: tutto quel che ho descritto è come mi sento in questo momento ed è il mio modo di vivere ora. Perché davvero davvero, il viaggio è troppo importante, troppo lungo per non potersi godere ogni suo passo avanti, e perché no, anche indietro.
di Alessandra “Furibionda” Zanetti
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