Quarant'anni da Predatori

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Quarant’anni da Predatori

Parte tutto da quella prima inquadratura. Parte tutto da quel logo della Paramount che, velocemente, dissolve su un vero monte del tutto simile a quello visto in grafica poco prima. Questa immagine viene subito oscurata dalla sagoma di un uomo con cappello Fedora, una giacca di pelle e una frusta appesa al fianco. Mai ingresso in scena fu più iconico e mai ingresso in scena fu più coerente e preciso dal punto di vista stilistico.

Indiana Jones debutta così, irrompendo sugli schermi cinematografici il 12 giugno del 1981, quarant’anni fa. Sembra siano passati secoli e, agli occhi degli spettatori più giovani, probabilmente è così. Stentiamo a festeggiare simili anniversari perché ci ricordano che il Tempo sfreccia come impazzito e che, all’alba del 2021, rievocare gli anni ’80 non sia tanto dissimile dal cimentarsi in un film in costume d’epoca.

Indiana Jones è il figlio di una coppia di autori considerati innovatori e demolitori del Cinema in egual misura. George Lucas e Steven Spielberg rappresentano la nascita del blockbuster, del “Film Evento” che occupa ogni singola sala della città togliendo spazio alle pellicole più piccole e più prive di risorse. Molti critici non hanno mai perdonato tutto questo ai due cineasti, negando riconoscimenti di rilievo a entrambi per moltissimo tempo (ricordiamo la misera performance di un’opera stupenda come “Il Colore Viola” di Spielberg, totalmente snobbato agli Oscar come gesto di sfregio nei confronti di un recordman che sognava di entrare nella cerchia dei “Veri Autori”). Se l’autore de “Lo Squalo” soffriva per questo trattamento, il creatore della Galassia Lontana Lontana se ne sbatteva con la naturale inclinazione di chi non desiderava entrare nel mondo di Hollywood ma crearne una versione tutta personale. È proprio Lucas a parlare a Spielberg di questo progetto legato a un professore/archeologo/avventuriero che stava sviluppando con il regista Philip Kaufman. Quando quest’ultimo abbandona tutto per fare altro diventa chiaro che il buon Steven vorrebbe rilevarlo e vorrebbe farlo a modo suo: salutando la connotazione realistica per abbracciarne l’inclinazione più giocosa e spericolata.

Mr Rob Indiana Jones

I Predatori dell’Arca Perduta” è figlio di infinite sedute di scrittura del giovanissimo Lawrence Kasdan, un copywriter che aveva studiato cinema e che Spielberg aveva scoperto leggendo una sua sceneggiatura (che diventerà “Chiamami Aquila” con John Belushi). Kasdan mette in fila ogni cliché, ogni espediente narrativo, ogni personaggio visto e rivisto nel glorioso cinema hollywoodiano degli anni ’50 e riempie i suoi committenti di così tanti spunti da bastare per più di un film. La famigerata sequenza dell’inseguimento sui carrelli da minatori in “Indiana Jones e il Tempio Maledetto”, ad esempio, arriva dalle stesure elaborate e poi scartate per il film precedente.

Il professor Jones e le sue rocambolesche avventure non hanno letteralmente nulla di davvero originale; basterebbe recuperare Charlton Heston ne “Il Tesoro degli Incas” o Humphrey Bogart ne “Il Tesoro della Sierra Madre” per riconoscervi il look del nostro archeologo preferito. I duelli con gli indigeni, gli idoli perduti, le corse nel deserto e gli scontri con animali selvaggi sono l’equivalente della spunta che metteremmo alle singole voci di un ipotetico elenco chiamato Tutto ciò che potresti trovare in un film action di trent’anni fa! Eppure, e qui risiede il genio di Spielberg, ecco che “I Predatori” fonde il vecchio con un ritmo e un tono che sono figli di quella trasformazione del cinema di intrattenimento degli anni ’80, creando un ibrido capace di sembrare nuovissimo e, soprattutto, portando all’attenzione degli spettatori uno dei primi esempi di rielaborazione di generi nella cinematografia dell’epoca.

Harrison Ford, con quella faccia da schiaffi e la straordinaria abilità di risultare credibile sia in tenuta da esploratore che in completo grigio da docente universitario, contribuisce alla causa e ci regala un personaggio che fatichiamo a vedere interpretato da qualcun altro.

Dopo quattro film (sì, esiste un quarto Indiana Jones che, sfortunatamente, tradisce la matrice artigianale dei precedenti a favore di una CGI invasiva che snatura il tutto) ora Indy sta per tornare. Sono iniziate da poco le riprese del quinto capitolo diretto da James Mangold, forse uno dei registi più devoti alla volontà di preservare il classico senza rinnegare il ritmo del cinema contemporaneo (vedere il suo remake di “Quel Treno per Yuma” per credere) e, seppure attanagliato dalla paura, resto cautamente fiducioso. “I Predatori dell’Arca Perduta” e il suo protagonista hanno segnato la mia vita di spettatore, cinefilo e narratore e non vedo l’ora di immergermi di nuovo in quel mondo.

Nonostante, in quel finale sconvolgente, l’Arca dell’Alleanza venisse riposta in un enorme magazzino contenente tutti i manufatti magici che animano la nostra fantasia, in una scena che sembra ribadire come il concetto di avventura targato Spielberg & Lucas non sia destinato alla nostra epoca e che per quanti sforzi si facciano per “riesumarlo” ci sarà sempre qualcuno pronto a rinchiuderlo da qualche parte in attesa di tempi migliori. Chissà che, quarant’anni dopo, non siano proprio i nostri.

di Roberto “Mr. Rob” Gallaurese

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