Lo specchio infranto – i moti di Stonewall

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Lo specchio infranto – i moti di Stonewall

Anno 1969, Greenwich Village di New York.

Un bicchiere viene lanciato contro uno specchio mandandolo in frantumi. In principio il danno è abbastanza irrilevante, mentre l’impatto sulla società enorme.
Una delle dighe che reprimeva l’inalienabile diritto alla libertà di espressione cede, ed è l’inizio di una straordinaria rivoluzione.

Tra le storie più coraggiose, anche se spesso senza un vero e proprio lieto fine, ci sono quelle che danno il via alle rivoluzioni culturali. Quelle che nascono dal dissenso, dalla repressione e dalla necessità di dire no. Come la storia di Marsha P. Johnson e dei moti di Stonewall.

Lo Stonewall Inn nel 1969 non era un ritrovo per delinquenti e nemici del popolo, più di quanto non lo sia oggi. Le persone non vi si riunivano allo scopo di architettare piani malvagi ai danni della società ma per godere della compagnia dei propri simili. Persone spesso emarginate perché considerate “diverse”. Complice la linea politica del presidente neo eletto Lyndon B. Johnson e delle continue repressioni razziste, l’America assistette in effetti alla nascita di numerosi movimenti, il cui scopo era tuttavia quello di rivendicare i diritti umani.

Le forze dell’ordine non gradivano il fatto che persone, il cui orientamento sessuale era ritenuto indecente, si arrogassero del diritto di protestare. Le retate nei locali per soli uomini, come lo Stonewall Inn, erano quasi all’ordine del giorno e spesso caratterizzate da perquisizioni (volte a verificare se i genitali dei fermati corrispondessero all’abito indossato), arresti e naturalmente percosse.

Nata come Malcolm Michaels Jr. il 24 agosto del 1945 a Elizabeth, nel New Jersey, Marsha aveva lasciato il paese natale poco dopo il diploma gettandosi alle spalle numerosi momenti oscuri. Dal dissenso della madre alle violenze perpetrate dai ragazzi del suo stesso quartiere, aveva già subito la sua dose di ingiustizie. In quella fatidica notte tra il 27 e il 28 giugno del ’69, percossa e umiliata, Marsha decise infine di reagire.

Alcune versioni riferiscono che fu lei a lanciare il bicchiere contro uno specchio del locale già in fiamme, urlando “I got my civil rights”. Altre che sia stata invece Sylvia Rivera amica e figura storicamente indicata insieme a Marsha tra le presenze più rilevanti dei moti di Stonewall. Il gesto non venne inizialmente attribuito alla Johnson poiché il suo stato mentale instabile e la sua identità di genere non-conforme, rischiavano troppo facilmente di diventare oggetto di attacchi da parte degli oppositori.

Ma qualcosa ebbe inizio eccome, tant’è che nel giro di pochissimo, oltre 400 poliziotti, si ritrovarono di fronte ad una schiera di drag queen, ferite, che cantavano “We are the Stonewall girls”. Tutto questo segnò l’avvio dei cosiddetti moti di Stonewall, cioè una serie di rivolte dei non eterosessuali per combattere per i propri diritti. Il 28 giugno 1970, un anno dopo le rivolte di Stonewall si tenne la prima parata a New York.

Tutto questo è storia e sono certo di non raccontarvi niente di nuovo. Quello su cui pochi si soffermano è il fatto, di per sé piuttosto sconcertante, che Marsha venne per lungo tempo evitata ed emarginata dalla sua stessa comunità.

Ella rappresentava una visione radicale di ciò che ora, 50 anni dopo, diamo per scontato. I gay bianchi più conservatori e tradizionali non erano interessati ad avere lei, o Sylvia, o altre persone del genere a rappresentare il movimento *

Sembra infatti che il comitato gay e lesbiche, che stava organizzando uno dei primi Pride di New York, chiese a lei e a Sylvia Rivera di marciare in fondo al corteo. Tale comitato non voleva ammettere le Drag Queen alle loro marce perché avrebbero dato alla manifestazione una brutta nomea. In tutta risposta le due marciarono davanti a tutta la parata.

Nonostante il suo innegabile contributo alla causa, che la vide tra le altre cose co-fondatrice della fondazione del Gay Liberation Front e dell’organizzazione per gay, trans e persone gender queer, nota come S.T.A.R. (Street Transvestite Action Revolutionaries), sempre insieme all’amica Sylvia Rivera, Marsha è stata raccontata, celebrata e riconosciuta solo dopo la sua morte.

Quando morì nel 1992 in circostanze tuttora misteriose** il corpo di Marsha P. Johnson fu cremato e la polizia, eccezionalmente, permise che la Seventh Avenue fosse chiusa mentre le sue ceneri venivano portate al fiume. Nel 2020, per volontà del governatore di New York, Andrew Cuomo, le è stato dedicato un parco a Brooklyn e di recente una petizione online ha decretato la rimozione della statua di Cristoforo Colombo (sita proprio nei pressi del municipio della città natale della Johnson) per erigerne una dedicata a Marsha. Il primo monumento negli Stati Uniti in onore di una persona transgender.

Ero nessuno, venuta dal nulla, finché divenni una drag queen

 Alessandro Felisi – Niente Da Dire

* Dichiarazione di Steven G. Fullwood, storico e co-fondatore del Nomadic Archivists Project durante un’intervista della NBC andata in onda nel Luglio del 2020.
** Il 6 luglio del 1992, il corpo di Marsha P. Johnson fu scoperto mentre galleggiava nel fiume Hudson. La polizia inizialmente catalogò la morte come suicidio. Sebbene diverse persone si fossero fatte avanti per riferire di aver visto la Johnson molestata da un gruppo di teppisti e nonostante una testimonianza ai danni di un residente del quartiere che venne prima visto lottare con la Johnson (il 4 luglio 1992) e in seguito colto in fragrante in un bar mentre si vantava di aver ucciso una drag queen chiamata Marsha, queste testimonianze furono ignorate dalle forze dell’ordine.
Fu soltanto nel novembre 2012 che l’attivista Mariah Lopez riuscì a far riaprire il caso dal dipartimento di polizia di New York per classificarlo come possibile omicidio.

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