La stiva e l'abisso: creature marine e parole

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La stiva e l’abisso: creature marine e parole

Le gioie della carne passano, le storie restano.

Un galeone spagnolo fermo, immobile nel mare a causa di una bonaccia. Un capitano colpito da una cancrena alla gamba, che gli impedisce di uscire dalla stiva. Un equipaggio che vive in attesa del vento che possa riportarli a casa. E infine, delle creature misteriose che fanno visita ai marinai, sconvolgendo la loro vita in maniera inaspettata, folgorante.

Questa è la trama del romanzo di Michele Mari, La stiva e l’abisso, intriso di ambiguità, erotismo e parole: o meglio, riflessioni linguistiche, divagazioni retoriche, mai fini a se stesse ma sempre tese a mostrare l’abisso che dietro alle parole si nasconde, l’infinito spazio di arcani e significati delle storie.

Mari non allontana mai il lettore dal testo, anche quando utilizza le sue ricercate parole specialistiche o i suoi dialetti antichi. La sintassi rimane semplice, ed è soprattutto la sintassi a far sentire il lettore al sicuro, che può così accettare qualche vocabolo strano, catturato com’è dalla trama e trascinato dolcemente da una lettura che è comunque scorrevole. Moltissimi i dialoghi, che rendono tutto più fluido.

E invece eccomi qui senza niente, nella condizione di chi, se vuole una storia, deve prima scriversela. Ma scrivere è bello se lo fai nel tramonto, quando rientri nel tuo appartamento dopo una giornata operosa e assecondi l’impulso di ascoltarti nel profondo, e allora ti cali dentro di te come in una miniera, e ne ritrai i minerali da scolpire e da far rilucere al giorno come imprevedibili prismi, quello, quello è il momento

Nel libro abbiamo solo conversazioni di marinai, con una battuta introduttiva e niente più, come fossimo a teatro, e le riflessioni del capitano, che in prima persona, da una posizione estranea, esterna alla vicenda, rinchiuso nella sua stiva, mantenuto all’oscuro dal suo Secondo dai problemi e dalle stranezze che avvengono alla luce del sole, ha una visione parziale, così come l’abbiamo noi.

Il mistero si rafforza grazie a questa strategia narrativa: non solo il mistero di ciò che realmente avviene, ma anche il mistero di ciò che la ragione pensa di vedere laddove è tenuta all’oscuro dei fatti. La stiva e l’abisso sembra quasi un giallo, anche se ben presto si accolgono indizi su ciò che avviene tra le mitiche-mitologiche creature del mare e gli uomini che le incontrano.

Ma ogni marinaio ha il suo incontro, ogni marinaio la sua storia: e l’insieme delle parti non risolve il mistero, che anzi si infittisce, ci rende avidi di scoperta così come avido diviene anche il capitano. E con la stranezza fantastica che è protagonista del romanzo, vi si alternano anche i giochi di potere di una nave quasi condannata a morte certa, un capitano costretto dalla malattia a non esercitare il suo comando, i desideri di ricchezza e l’invidia di un meschino e ottuso Secondo… Ammutinamenti, suicidi, invenzioni create nella solitudine di una cabina…

La forma del mio sapere era la distanza, la mia testa era il luogo di ogni distanza.

Ma il punto era: quanto e cosa, dell’arcano che ci aveva sorpresi, entrava nella mia cabina? Ciò che entrava diveniva mio; troppo mio forse, ma che possesso è mai quello di cui si ignora l’estensione? A questi interrogativi reagivo con furore, tanto più abbandonandomi alla teoretica vertigo quanto più intuivo che quell’arcano aveva forma d’abisso: anche la mente ha le sue voragini esose, ed io volevo esplorarle fino in fondo.

La stiva e l’abisso parla della potenza delle storie, della condizione di chi viene escluso da questa magia, parla di vita e di morte e di passione, perché le storie non sono mai solo storie: rimaniamo nei racconti, ci nutriamo dei racconti e moriamo, infine, nel racconto della nostra stessa vita.

“Un visionario viaggio alla scoperta della natura cannibalesca e metamorfica di tutte le storie e dell’arte del raccontare” (dall’edizione Einaudi): il sogno, il vagheggiamento mistico, la fantasia e le allucinazioni, sono tutti mezzi attraverso cui ci appaiono le creature del mare. La zoologia fantastica che Mari crea in questo libro ci riporta ai miti lontani delle sirene e ai romanzi d’avventura dei pirati, alle atmosfere surreali di Poe… Una comicità cruda che vela fatti inauditi, una sacralità bizzarra.

Non hai capito. È che in quel tuffo rivivi tutta la tua vita, non hai ancora toccato l’acqua e ce l’hai lì tutt’intera, la tua vita, e allora anche se muori è quello il momento in cui sei più vivo, ti rivedi piccino e già questo è abbastanza commovente, sono io quello? Sì sono io, ma il massimo della commozione è quando ti appare la tua ignoranza, del bambino voglio dire, lo vedi e capisci che non sa cosa gli capiterà da grande, magari fa dei sogni ma è chiaro che sono tutti sbagliati, tu però lo sai, come sono andate effettivamente le cose, e questo confronto tra l’immaginazione del bambino e la memoria dell’adulto è tremendo, tremendo… 

di Viola Sanguinetti

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