La resurrezione della resurrezione della resurrezione
Varie sono le ragioni per cui la tendenza degli ultimi anni per ciò che riguarda la creazione di opere creative sia volta al passato. La spinta propulsiva verso il progresso e la novità, anche temeraria, è rallentata, a tutto vantaggio della riproposizione di cose del passato, rifatte con più o meno cura, sottolineando e mantenendo una comfort zone che avvolge il creatore dell’opera ed il suo fruitore. Due sono le modalità principali in cui questa tendenza si estrinseca. La prima è la continuazione perenne, capitolo dopo capitolo, di strutture che esistono già, comprovate e di successo. Si pensi quindi, per ciò che riguarda quanto diremo in questo scritto, alle serie televisive, che raggiungono stagioni anche a doppie cifre, oppure ai videogiochi, moltissimi dei quali continuano a seguire format triti e ritriti e riproporre, di anno in anno, una versione aggiornata.
Titoli di grande successo come FIFA, Call of Duty, Assassin’s Creed, tanto per citare alcuni dei più noti, vengono riproposti di anno in anno con marginali differenze: trovato il format che spacca, lo si ripropone all’infinito, sapendo che la remunerazione economica è certa ed i gusti del pubblico, ormai, sono palesi.
Questo sistema, malgrado dimostri palesemente un deficit creativo dei nostri tempi non da sottovalutare, non dev’essere però soltanto condannato, come si fa di solito. Se infatti esiste una formula forte alla base, che può dare origine, di per se stessa, a cose differenti, allora non c’è ragione di muovere critiche. Si pensi allo sport: nel calcio, il campo è sempre quello, e le regole le medesime di anno in anno (salvo rarissime modifiche). Eppure il gioco intrattiene milioni di appassionati, e nessuno si sognerebbe di dire che la prossima finale di Champion’s League sarà un more of the same.
Titoli come League of Legends o DOTA2 tengono banco da anni proponendo sempre la stessa mappa (anche con qualche cambiamento qua e là nel corso del tempo). Eppure i loro tornei sono seguiti da un pubblico immenso, le partite commentate ed analizzate, e mai si è posta la questione della venuta a noia del setting o delle meccaniche. Anche Call of Duty, nella sua veste multiplayer, ha offerto con successo sempre il solito deathmatch di velocità e riflessi, e la sua unica vera aggiunta negli anni è stata la modalità battleroyale. E World of Warcraft, che ha da sempre abbracciato quella “sindrome da Dragonball” per cui ad ogni dungeon e ad ogni raid ne segue uno concettualmente uguale ma più difficile, è ancora l’MMORPG più giocato e influente sul pianeta.
Occorre però rimarcare che il punto fondamentale di tutti questi titoli è, senz’altro, il multiplayer. Così come nella vita reale, anche lì la diversità nelle esperienze e la conseguente longevità dei prodotti è dovuta alla presenza degli esseri umani, imprevedibili per definizione. È la caratteristica fondamentale.
D’altra parte, esistono operazioni molto meno virtuose: seguiti di operedi grande successo, che intendono capitalizzare sul nome del prodotto precedente. Il discorso è semplice: essendo piaciuto il capitolo precedente, per forza piacerà anche quello dopo. In questi casi, il seguito è realizzato semplicemente per aggiungere un numero in più al conto, e per sfruttare il clamore generato dalla prosecuzione di qualcosa di apprezzato, cosa che crea attesa e trepidazione. È la trappola del marketing. Soltanto perché viene prodotto un seguito di una famosa saga di fantascienza videoludica, non vuol dire che esso sia bello quanto i precedenti. Soltanto perché viene prodotto un trittico di seguiti di una famosa saga di fantascienza cinematografica, non vuol dire che esso avrà un perché.
In questi titoli, l’intento è principalmente economico. Qui non si ripropone una formula di successo: qui ci si arrocca sulle solide basi del passato per paura di rischiare. E spesso, quando i prodotti sono fallimentari, avvelenano e distruggono perfino ciò che è venuto prima. È il caso, oltre del già citato Star Wars, anche di titoli videoludici come Mass Effect: Andromeda, oppure di Fallout 76. Giochi mediocri, forti però di un franchise di successo, il cui solo nome ha dato una mano alle vendite. La seconda modalità di riproposizione di cose del passato, invece, attiene alla ricostruzione delle stesse, rivisitandole in chiave moderna. Nel mondo dei videogiochi, si usano i termini remake e remaster. Senza addentrarci troppo nei dettagli tecnici degli uni e degli altri, in generale qui il progetto è quello di restaurare un titolo del passato, facendolo quindi rivivere agli occhi dei fruitori moderni, abituati a cose assai diverse rispetto a quelle cui erano abituati i fruitori originali, nel passato.

Warcraft III: Reforged (2020), Blizzard
L’intento, sulla carta, è lodevole: si porta ai giocatori di oggi un qualcosa che proviene da ieri, che oggi non sarebbe mai fruito, perché sarebbe percepito come vecchio ed inadeguato. Immaginatevi voi di giocare a titoli che neppure supportano le moderne risoluzioni, o i cui sistemi di controllo e di interfaccia sono fermi a trent’anni fa. Per non parlare della resa grafica complessiva: soltanto una ristretta minoranza è in grado di superare questi ostacoli e di entrare, realmente, nel gioco.
Dunque ci pensano gli sviluppatori a limare queste barriere all’ingresso, appunto mettendo mano al titolo del passato e “rimasterizzandolo” secondo gli standard odierni. Paradossalmente, il rischio di un simile approccio è altissimo. Eppure, sembra non essere percepito: negli ultimi anni si sono sfornati remake e remaster come se piovesse. Ma di questi, veramente pochi sono davvero stati meritevoli. Altri, come Warcraft 3: Reforged, hanno fallito sotto ogni aspetto, condannando contemporaneamente la reputazione della casa di sviluppo, la ben nota Blizzard. Il remake di Prince of Persia: le Sabbie del Tempo è stato soltanto annunciato, ma ha già subito così tante critiche che il suo stesso futuro è a rischio.
Del resto, non si rimette mano a tutti i prodotti del passato. Soltanto alcuni dei titoli videoludici degli scorsi anni sono meritevoli di un lavoro di questo tipo. Sono i titoli più iconici: quelli più influenti, i cui appassionati, ancora oggi, hanno un’esperienza, un’influenza e (giustamente) una serie di aspettative che è difficilissimo raggiungere. Per questo realizzare un remake o una remaster è, paradossalmente, una delle azioni più rischiose che una casa di sviluppo possa mettersi a fare: il rischio di sbagliare è elevatissimo, e le conseguenze di uno sbaglio sono le più sanguinarie che nell’industria ci possano essere.
Vale quindi la pena porsi questo interrogativo: non sarebbe forse meglio andare avanti, anziché guardare sempre al passato? Malgrado sia lodevole l’idea di portare ai nuovi giocatori titoli antichi e permetterne loro una comoda fruizione, non sarebbe più giusto lasciare le leggende al loro tempo e crearne di nuove per i nuovi tempi? E, considerando l’importanza che la sicurezza economica riveste nella realizzazione di un’opera ai nostri giorni, di chi è la colpa? È di chi, dall’alto, dirige lo sviluppo delle nuove opere e decide che è meglio puntare sul passato per avere un guadagno facile o di chi, dal basso, fruisce delle nuove opere e determina che è meglio puntare sul passato per avere un guadagno facile?
di Giacomo Conti, MMO.it.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.