La maschera che ci condanna-L’uomo che ride di Victor Hugo

Reveal more

La maschera che ci condanna-L’uomo che ride di Victor Hugo

 

Febbraio è sempre stato sinonimo di Carnevale, la festa del travestimento e delle maschere per eccellenza. In cui bambini, ragazzi ma anche adulti si travestono e indossano costumi elaborati, alcuni ispirati alla Commedia dell’Arte Italiana che tutt’ora viene ricordata come una delle pietre miliari della storia del nostro teatro, nonché fonte d’ispirazione anche per altre tipologie di teatro internazionale. Il concetto della “Maschera” mi ha sempre affascinato, sia nell’ambiente teatrale ma anche fumettistico e cinematografico; senza contare che è uno dei temi più vicini a uno dei miei autori preferiti, ovvero Mastro Luigi Pirandello, che ne espresse una concezione chiara e netta nelle sue opere, come Uno, Nessuno e Centomila o Così è (Se vi pare). Ma c’è stato un altro grande autore che, in maniera del tutto involontaria, ha concepito un pensiero più oscuro e maledettamente realistico sul concetto di maschera; riportandolo in uno dei romanzi classici più spietati e crudi di fine ‘800…

E se la tua maschera, invece di nasconderti, ti condannasse?

Nel 1869, il grande scrittore francese Victor Hugo scrisse L’uomo che ride, un romanzo famoso tra gli appassionati sopratutto per essere stato la fonte principale di Bob Kane e Bill Finger per la creazione della nemesi più famosa e inquietante dei fumetti americani, ovvero il Joker, storico villain di Batman. Ma questo romanzo cupo e opprimente, contiene ben più di una semplice ispirazione famosa: Hugo mette in atto una storia potente e magistrale, ambientata in una Londra del 17° secolo fredda e opprimente, in cui denuncia la povertà e l’oppressione dei poveri a discapito dei ricchi; la lotta tra Nobili moralisti e vicini al popolo contro vecchi conservatori disposti a tutto per mantenere il loro status facoltoso e privilegiato, rifacendosi sulle spalle della gente;  l’enorme disparità che vi è tra essi, ricchi e poveri, lord e sudditi, come la separazione che esiste tra Dio e l’Uomo. Tutti questi temi vengono rappresentati dagli incredibili personaggi della vicenda e dallo scenario crudo e infame che li circonda. Ma c’è un altro tema più nascosto e involontariamente inserito dall’autore che sbuca fuori ad un occhio esperto, ed è messo in scena dallo splendido protagonista della storia: Gwynplaine

Nelle vicende raccontate da Hugo, Gwynplaine è un Guitto di strada, un attore che vive dei guadagni delle rappresentazioni teatrali fatti sopra uno speciale carro itinerante costruito dall’uomo che gli salvò la vita da piccolo: Ursus, vagabondo un po’ filosofo, un po’ poeta e anche medico. La peculiarità che alimenta la fama di Gwynplaine è dovuta principalmente ad una deformità del viso che sembra dargli una perenne risata, cosa che fa scoppiare dalle risate chiunque lo veda in scena. Una perenne maschera di carne, che il povero ragazzo non può togliersi e che lo segue ovunque egli vada. Una vera e propria condanna…

Ed ecco che nel volto sfigurato di Gwynplaine, Hugo fa trasparire un nuovo e semplice concetto: la maschera ti condanna ad essere ciò che non sei; ciò che il mondo vuole che tu sia. Un concetto crudele e disumano che purtroppo vediamo in alcuni di noi, anche senza che possiedano deformità fisiche evidenti. Il protagonista porta con sé un sorriso che non vuole sfoggiare tra la gente, poiché egli non si sente felice nel vivere tra la fame e la miseria che lo circonda, ma non può far nulla per evitarlo. E’ condannato a ridere e far ridere la gente alla vista del suo volto. Persino dopo che scopre che in realtà egli è figlio di un lord pari d’Inghilterra, malvisto dai conservatori per le sue idee morali verso il popolo, e che può far valere i diritti della gente che soffre davanti alla Camera Dei Lord, viene ricoperto di risate e sberleffi da tutti i lord Inglesi che non hanno visto altro che il suo ghigno inciso nella carne, incuranti del suo meraviglioso e toccante discorso.

Certe maschere ti seguono per sempre, e non sono fatte per nascondersi ma per condannarti ad un’eterna incomprensione. Uno sguardo che si ferma soltanto sulla superficie e non esplora ciò che tu realmente sei e vuoi disperatamente mostrare, posto da persone che guardano e non vedono. Questa è la maschera peggiore che esista, una involontaria e non voluta barriera che t’impedisce di dimostrare che ciò che sei e che provi è reale e non una bugia. Ma come in tutte le cose, anche in una situazione del genere c’è speranza; la stessa che afferra Gwynplaine e lo porta tra le persone che lo hanno sempre visto, attraverso la sua maschera di carne, e che lo hanno amato profondamente: Ursus e Dea, la ragazza cieca di cui Gwynplaine è profondamente innamorato, vedono ciò che di bello e fantastico risiede in lui, oltre ogni condanna imposta da una vita sfortunata o inflitta da un mondo troppo cieco, e lo riabbracciano felici nel suo ritorno. Avendo sempre conosciuto quell’uomo, avendo già visto il suo vero volto.

Purtroppo, le vicende dell’Uomo che ride non si concludono con un lieto fine. L’elemento tragico è una prerogativa dei romanzi di Hugo, ma in questo libro il momento della riconciliazione e della consapevolezza rendono il finale meno amaro, più romantico nel suo gesto: Gwynplaine ha il tempo di sentire il calore della libertà sul suo volto libero da quella condanna, grazie all’amore di Dea e all’affetto di Ursus. Una famiglia che è un mondo per lui. Un mondo in cui vorrà stare per sempre compiendo un gesto estremo, ma che gli permetta di non lasciare più quella libertà e liberarsi per sempre del volto fittizio che la realtà crudele gli ha donato.

La libertà di essere noi stessi c’è e ci sarà sempre. Perciò indossiamo le maschere della festa, mangiamo felici i dolci e le prelibatezze di questo mese. Facciamolo senza paura o timore di uno sguardo superficiale, perché per essere liberi ci basterà incrociare gli occhi di chi ci ama per come siamo.

Attore Novizio al vostro servizio!

Lascia un commento