The Guild – quando il gioco su schermo funziona!
In una delle numerose Live realizzate in coppia con il Rinoceronte sul canale Twitch di Niente da Dire è capitato di parlare di videogiochi e adattamenti su grande schermo. La conversazione ha portato infiniti esempi negativi, dimostrando quanto sembri impossibile rendere efficacemente al Cinema le gesta di un Assassino, di una squadra che combatte i mostruosi risultati di esperimenti genetici o di un’archeologa dai pantaloncini eccessivamente corti. Al termine di quella chiacchierata mi sono ritrovato a formulare una teoria forse banale ma molto precisa: adattare un videogioco (ma, forse, anche un qualsiasi tipo di gioco) in un altro medium è una scommessa persa in partenza perché ne disinnesca la caratteristica principale che è quella di funzionare solo con l’intervento di chi vi gioca. Perché Alicia Vikander può anche essere una Lara Croft convinta ed efficace ma noi saremo solo spettatori delle sue gesta mentre, in origine, eravamo i veri artefici delle sue avventure. La soddisfazione di vincere attraverso la nostra abilità, il nostro intuito e la nostra costanza non è paragonabile all’entusiasmo che si prova di fronte a un film anche ben riuscito e questo è un deficit apparentemente insormontabile.
Per questo motivo, almeno secondo il sottoscritto, l’unico modo per trasmettere le vere caratteristiche di un gioco in un prodotto cinematografico e televisivo è quello di raccontarne direttamente le dinamiche! Non riprodurre un’avventura ma riprodurre l’atto di giocare con le sue regole, i suoi ostacoli e le sue soddisfazioni. Partendo da uno spunto come questo, peraltro, non è detto che si debba tramutare il tutto in qualcosa che depotenzi la portata spettacolare della cosa (“Jumanji” è l’esempio che smentisce tali timori, direi). Se un giocatore si ritrova a patteggiare per qualcuno che condivide con lui la medesima passione e può riconoscersi nelle scelte giuste e sbagliate nelle quali incapperà saremo già un passo avanti. Se poi, attraverso la narrazione del mondo dei giochi, sarà possibile esplorare le vicende e le personalità dei protagonisti allora avremo fatto Bingo!
Più di un decennio fa, agli albori di YouTube, ci fu una Web Serie capace di introdurre l’argomento con una tale efficacia e puntualità da spazzare via ogni concorrente: “The Guild”, scritta e interpretata dall’attrice Felicia Day. Nata come progetto personale, coltivato tra un impegno recitativo e l’altro (compresi numerosi episodi di “Buffy”), si è tramutato in serie destinata a Internet quando Felicia ha constatato quanto potesse essere un veicolo più idoneo a raccontare le vicende di un gruppo di persone perennemente davanti a un computer. Scelta vincente che ha giovato dell’effetto virale che, all’epoca, la piattaforma poteva fornire e che ha trasformato una produzione del tutto indipendente (la prima stagione fu conclusa anche grazie a donazioni di utenti) in una bandiera delle Web Series con tanto di esclusiva MSN (!!) e Xbox Live Marketplace per lo streaming negli anni successivi.
Nelle vicende di Codex, accanita giocatrice che sembra prediligere i ritmi di un MMO stile World of Warcraft alla deprimente vita reale fatta di delusioni personali e professionali, si sono riconosciuti in molti nonostante il tono prevalentemente comico. Tutti i membri di questa gilda online condividono tratti caratteriali peculiari con i personaggi che interpretano nel gioco anche quando, nella vita di tutti i giorni, sembrano assai diversi. La stessa Codex è una healer e, non a caso, diventerà il cardine della prima stagione quando un altro membro del gruppo, il tenero Zaboo, romperà la regola non scritta del “mantenere tutto online” e si presenterà alla sua porta per trasferire il loro flirt virtuale nella vita vera. Questo spingerà tutti ad abbandonare gli schermi, a incontrarsi fisicamente e iniziare una buffa amicizia che, però, non sostituirà la loro attività online.
Certo, anche “The Guild” ha le sue criticità: nelle ultime stagioni con la trama di Codex programmatrice di un videogame, inizia a cadere vittima del suo desiderio di trasformarla in un personaggio che ottiene Fortuna e Gloria a discapito della potenziale identificazione in lei che nutrivano gli spettatori. E, talvolta, indugia nel dipingere i giocatori come personaggi eccessivamente strampalati e problematici quando, onestamente, non è necessario e rischia di aprire le danze dei soliti stereotipi sull’argomento.
Eppure, dato che ormai la serie si è chiusa un decennio fa, credo sia interessante suggerirla a chi se la sia persa perché, per quanto mi riguarda, è uno degli esempi più efficaci di come si possano portare le dinamiche dei giochi nel mondo della narrativa senza snaturarne le caratteristiche ma, piuttosto, evidenziandole. Forse “The Guild” risulterà ormai datato ma ciò che racconta si adatta ai tempi come soltanto i classici sanno fare.
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