La mia immaginazione ha già giocato a Cyberpunk 2077
La prima volta che lo incrociai fu amore a prima vista, me lo ricordo ancora. Era il 2012 ed era uscito soltanto un trailer cinematico. Ma a me bastava. La mia immaginazione aveva già cominciato a viaggiare, mesmerizzata nelle tematiche transumaniste e nella distopia di un mondo dominato da corporation senza scrupoli o etica. Sono passati otto anni da quella prima scintilla d’amore e ogni volta che un trailer nuovo veniva pubblicato ero lì, esattamente come Michael Jackson nel videoclip di Thriller: in prima fila con i pop-corn e due cuori al posto degli occhi ad immaginare le mie incredibili avventure sul filo del rasoio. Avevo elaborato le meccaniche di gioco e le scene nelle quali cambiavo le parti del mio corpo. Tutto nella mia mente era cristallino.
Ma quest’ultimo anno è stato devastante: un’epidemia globale ci ha costretti a casa e ha cambiato radicalmente molte delle nostre abitudini. Lo sviluppo videoludico ne ha risentito e, di conseguenza, anche il prodotto finale. Cyberpunk 2077 non è da meno: continui rinvii e sviluppatori in crunch per riuscire a consegnare un prodotto in una data che loro stessi (o gli investitori) si sono assegnati e che, vista l’ambizione del progetto, poteva tranquillamente slittare senza per forza calpestare le vite lavorative dei dipendenti. Il 10 dicembre, però, è finalmente uscito e con mio fratello mi sono diretto al GameStop per ritirare la mia copia del gioco. Quasi non ci credevo, stava succedendo veramente. Stavo per ritirare Cyberpunk 2077 di CD Projekt Red! E se poi me ne pento? (letto con tono alla padre Maronno). Ho aspettato questo gioco come se fosse il Messia. E’ così infatti che è stato rappresentato sia dalla stessa software house che da noi giornalisti. Doveva essere una rivoluzione nel nostro modo di concepire il genere cyberpunk e gli action RPG. Insomma il suo compito era di sconfiggere i Sith, non di unirsi a loro. Ad oggi però mettersi ad elogiare Cyberpunk 2077 come un capolavoro è poco utile al dibattito, così come distruggerlo andando a cercare maniacalmente tutti i bug grafici.
Quindi è il momento di fare una critica costruttiva su cosa effettivamente poteva andare meglio nel suo design. Lasciamo quindi da parte tutte le evidenti problematiche tecniche che si sono verificate sulle console di vecchia generazione e vediamo cosa (personalmente) avrei voluto vedere all’interno di questo ambizioso progetto cyberpunk. Non ha senso soffermarsi sul gunplay e il sistema di guida, che (forse) rappresentano i punti più deboli della produzione.
Dopo ore e ore di gioco intenso non posso ritenermi deluso, ma nemmeno soddisfatto al 100%. La sensazione durante le ore di gioco era di godimento estetico accompagnato da un retrogusto amaro e di vuoto. Come se parte del contenuto fosse stato bruscamente strappato dal codice del gioco come un innesto rigettato dal corpo ospite. Cyberpunk 2077 poteva osare molto di più e in questo breve pensiero, forse un po’ abbozzato, parlo di alcuni aspetti del lato GDR che più mi hanno fatto storcere il naso durante le sessioni. Talvolta lo sviluppo poteva prevedere alcune feature che avrebbero reso l’esperienza ancora più di impatto di quanto non lo sia già attualmente.
Partiamo dal presupposto che visivamente Night City si erge come una metropoli multietnica di pregevole fattura, studiata in ogni minimo vicolo e anfratto. La sua urbanistica unica servirà da esempio per tutti i level designer nell’industria. Il world building nel suo complesso è incredibile: l’impressione è quella di camminare in una città viva e con la sua logica, la sua ipocrisia e i suoi problemi sociali.
Come molti sanno Cyberpunk 2077 è ispirato dal GDR cartaceo pen & paper Cyberpunk 2020 prodotto da R. Talsorian Games nel 1990 e ambientato in una Night City nei pieni anni venti del 2000. Ruggenti? Rombanti? Sicuramente esplosivi vista la Quarta Guerra Corporativa tra la Arasaka e la Militech a suon di ordigni termonucleari. Nel prodotto originale vi era una meccanica estremamente interessante da ruolare attorno al tavolo: l’umanità. In un mondo nel quale cambiare le proprie parti del corpo è simile allo scegliere quale maglietta indossare la mattina, una meccanica simile pone davanti ad un dilemma morale famoso nella letteratura del genere, ma non per questo banale. Cosa definisce la nostra umanità? Il corpo di carne? La mente? Si tratta di leit motiv comuni ad altri grandi esponenti del videoludo, come il buon Deus Ex di Warren Spector oppure Ghostrunner di One More Level. Nel manuale di gioco di Cyberpunk 2020, l’umanità è un valore che:
This is a measure of the toll cybernetics takes on your ability to relate to other living things.[…] This can have a serious effect on any Empathy related Skills, as well as forcing you to the edge of cybernetic induced psychosis.
Più sono gli impianti che abbiamo nel corpo, più le nostre capacità di relazionarci alle altre cose viventi vengono meno. L’empatia appare come una debolezza che noi abbiamo colmato con la tecnologia, inducendo il nostro avatar ad un possibile stato psicotico. CD Projekt Red, nel corso del decennio, aveva mostrato dei filmati in cui appariva un “costo umanità”. Questo però poteva trarre in inganno, poiché questo fattore non aveva niente a che fare con questa meccanica del GDR cartaceo. Il valore, infatti, indica unicamente un limite di impianti cibernetici che il nostro corpo e mente può sopportare. Ma se fosse stato possibile impazzire? Partire in una furia omicida che ci avrebbe inesorabilmente portato all’autodistruzione? Sarebbe stato difficile da implementare a livello di gameplay, ma sarebbe stato un punto in più di sviluppo caratteriale che avrebbe ampliato il lato GDR del prodotto.
Nonostante molte missioni manifestino una loro natura “immersiva” impeccabile, altre invece non sembrano avere l’influenza necessaria sugli avvenimenti. L’esempio per eccellenza sono le origins story. All’avvio del gioco e superato l’editor del personaggio, ci è chiesto di scegliere tra tre differenti lifepath: Streetkid, Corpo e Nomad. Questa scelta mette i giocatori dinnanzi ad un prologo di poco più di mezzora e dopo un jump cut degno di Guy Ritchie, inizia la missione di congiunzione con tutte e tre le storyline. Dopo questi brevi prologhi, delle nostre origini, si sente parlare molto poco. Si potevano implementare altri background e renderli più presenti durante l’avventura. O quantomeno più influenti. Era anche possibile approfondire ulteriormente la funzione dei netrunner e del cyberspazio in particolare, rendendoli giocabili e più interattivi rispetto alle sezioni guidate mostrate durante la storia. Un lavoro simile era stato svolto già diverso tempo addietro dagli sviluppatori di Shadowrun. Insomma CD Projekt poteva spingersi oltre e implementare alcune meccaniche del GDR cartaceo rendendole giocabili sul medium videoludico. Non si tratta di un lavoro semplice, ma sono tratti distintivi che rendono peculiare il prodotto, calando maggiormente il giocatore in un universo cyberpunk ben formalizzato come quello sviluppato da R. Talsorian Games. Il prodotto finale è comunque soddisfacente, ma poteva e doveva spingersi oltre ed essere, quindi, più punk e di controcultura.
Cyberpunk 2077, al netto di pregi e difetti, è comunque il gioco del decennio: un prodotto la cui cultura dell’hype si è gonfiata fino ad esplodere. Il lavoro svolto da CD Projekt Red è notevole, ma forse dovevano rimandarlo ulteriormente. Impopolare? Si, ma necessario. Bisognava raccogliere le idee e organizzare in modo più efficiente il lavoro. Mettere gli sviluppatori in crunch e successivamente rimandare il gioco di 21 giorni per fare del polishing (pulizia texture e grafica) è sintomo di una disorganizzazione disarmante. Avrei sofferto ad aspettare ancora un anno per vedere il contenuto completo e rifinito, senza tagli nel contenuto o bug grafici? Assolutamente no, ho aspettato fino ad adesso e potevo aspettare ancora. In quel lasso di tempo, avrei continuato a sognare Cyberpunk 2077 e a giocarci solo con la mia fervida immaginazione.
di Damiano D’Agostino, Niente da Dire
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