Giocare per imparare a vivere meglio?
Il gioco per me è da sempre un modo per insegnare a comportarsi. Che si tratti del campo o fuori dal campo (o chi per esso), avere un’etica legata a un’attività ludica è una sorta di ponte tra fantasia e realtà, che a volte può far cambiare prospettive e atteggiamenti anche ai più in difficoltà.
E non parlo di chi si comporta male che impara a comportarsi bene con uno sport; sicuramente anche quello, ma proprio l’attività regolamentata di un gioco viene sempre vista come qualcosa di estraneo alla realtà e quindi anche quando non si è propensi a far caso alle regole nella propria vita vera, talvolta, il gioco è ciò che serve per rientrare in carreggiata. Da insegnante, imparare giocando è una cosa che ho sempre cercato di applicare. E da scrittrice fantasy, dove ormai sapete che cerco di metaforizzare ogni aspetto della realtà attraverso le mie storie, non posso non pensare anche al gioco “nel gioco”.
Vi faccio un esempio, di uno dei giochi del mio mondo di Athleon si chiama Spikeball ed è una sorta di palla avvelenata. No, non googlate “spikeball” troverete delle palline graziose. Qui non c’è niente di grazioso: immaginate che la palla abbia delle punte e che esse siano imbevute di veleno. E oltre a queste ci sono alcuni giocatori che hanno il compito di ostacolare gli avversari con dardi pregni dello stesso veleno. Ci si fa male davvero. Si può anche morire sul campo.
Per questo per giocare a Spikeball servono 5 resurrettori e 17 Abili che non abbiano paura di farsi male. Per vincere, serve che ognuno sappia perfettamente qual è il proprio ruolo e che da esso non esca. Se c’è in gioco la vita, per quanto possa essere ripristinata, si valutano meglio tutte le cose.
Le primedonne e i fantasisti non servono, dove dal proprio compito ben svolto dipende la salute e la resa dell’intera squadra; il fatto che i resurrettori siano in campo con loro non li autorizza a essere egoisti né sconsiderati. Ci va strategia, consapevolezza e fiducia, come fratelli. In Arena il tempismo è essenziale così come la concentrazione: se il tiratore scocca solo finte esaurisce i dardi senza portar punto o peggio non ne ha quando è l’occasione di arrestare un possesso palla. È così che si impara a non sprecare le occasioni, a saperle cogliere, a vedere di preservare le energie: è bello buttarsi a capofitto, ma solo in ciò che è giusto.
Anche saper tenere la formazione è fondamentale: è insensato che ci si posizioni per gli ammiratori! Non c’è nulla da ammirare in un gruppo di persone in arena come se fossero statue: gli scudi sono fatti per difendere, deviare e sfondare, non per mostrare i muscoli dei portatori e delle portatrici! Non è immagine, non è visibilità e assolutamente non è il gioco del singolo… È l’insieme delle intenzioni, che coordinate tra loro, creano successo e al contempo gioia e meraviglia per la vista. E quanto sarebbe bello che nella vita fosse lo stesso: poter ammirare la bravura e il talento prima, la preparazione e la capacità prima, e da questo, far scaturire il senso di “bello” invece che una vuota posa plastica soltanto.
Ma quello che trovo più fondamentale, è che sprecare forze nell’apparire e nell’incolpare gli altri per le nostre mancanze serve solo a creare tensioni inutili. Nel gioco e nella vita. Dovremmo sempre giocare onesti, duri ma leali, allenati e reattivi: la vita è piena di momenti che ci falceranno come dardi avvelenati, di pallonate appuntite in faccia. Per questo l’unica cosa che possiamo fare è essere presenti nel momento e vivere come un gioco, ma sapendo che questo gioco può essere pericoloso.
Ogni giorno è il giorno giusto per giocare e anche giocando possiamo dimostrare a noi stessi e agli altri quanto valiamo. E non importa che siamo resurrettori o altro, se troviamo la squadra giusta, possiamo vincere ogni sfida.
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