Scender giù dall’albero di ciliegie.

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Scender giù dall’albero di ciliegie.

 

Natale, per me, è sinonimo di innumerevoli fattori lieti e importanti nella mia vita di attore.

Nei periodi natalizi, durante la mia “formazione” artistica, ho avuto modo di recitare testi e opere che sono fortemente collegati alla festività più famosa del mondo: dal meraviglioso Natale in Casa Cupiello di Eduardo De Filippo al Canto di Natale di Dickens ( se ve lo state chiedendo sì, ero Scrooge.), per arrivare anche a interpretare l’asinello del presepe in una commedia scritta da un autore reggiano e rappresentato nella parrocchia del mio paese. (Non domandate ne giudicate, capiteranno anche a voi ruoli simili nella vostra carriera!) Aggiungiamoci anche che nel mese di Dicembre, ben centotrentatre anni fa, debuttò l’opera che mi ha segnato più nel profondo di qualsiasi cosa mai esistita, il Cyrano De Bergerac. Quindi ho tantissime ragioni per amare il Natale, molto più solide e profonde delle solite questioni legate al materialismo dei regali, l’ovvia sacralità e le classiche riunioni con amici e parenti.

Eppure, c’è qualcosa che scava ancor più nel profondo del mio cuore. Qualcosa che ha reso il periodo natalizio ancor più spirituale, sacro, importante.

Natale, per me, significa “Promessa”.

Quand’ero piccolo, festeggiavo spesso il natale nella città dove sono nato, Rieti. Lì avevo l’opportunità di poter stare con i miei nonni paterni, che non perdevano mai tempo per coccolarmi e trasformare le mie festività in qualcosa di magico. In casa dei miei nonni vi era una piccola tradizione: il 26 dicembre si doveva andare sempre a teatro a vedere uno spettacolo dialettale, piccola passione di mia nonna. E fin quando lei rimase in vita, questa tradizione doveva essere mantenuta. E il 26 Dicembre 1995, quando avevo sei anni, assistetti ufficialmente al mio primo spettacolo teatrale in assoluto: Cala dda ssa cerecia.

Scritto dall’autore ternano Renato Brogelli e successivamente trasposto in vernacolo reatino da Guido Marcellini, Cala dda ssa cerecia ( tradotto dal reatino:“Scendi giù da quell’albero di ciliege”) è un’espressione tipicamente reatina che si rivolge a chi si mostra superiore alla massa, guardando tutti dall’alto in basso, intimandogli di tornare in mezzo ai comuni mortali. Lo spettacolo fece il suo debutto nel 1973 nel teatro principale della città, il teatro Vespasiano, e da allora continua ad andare in scena nel periodo natalizio, riempiendo la platea di persone ormai affezzionati alla commedia. La trama è piuttosto semplice: La signora Maria, genovese trapiantata a Rieti, entra in conflitto con suo marito Natale ( giusto per rimanere in tema) per quanto riguarda il futuro della figlia Letizia. La donna, che ha una visione della vita basata sull’apparenza e sul prestigio della classe nobiliare, vorrebbe che la figlia andasse in sposa ad un ricco barone, infischiandosene del volere della figlia già innamorata di Sergio, bravo ragazzo e onesto lavoratore ma dalle umili origini. Natale, invece, uomo semplice e genuino, cercherà in tutti i modi di favorire la scelta della figlia, fatta per amore e non per convenienza. L’intero spettacolo gira su questo perno narrativo, con situazioni spassose e classici momenti da commedia degli equivoci, valorizzando la genuina “umanità” dell’animo a dispetto dell’opulenza e del prestigio e convogliando il tutto in un finale positivo e soddisfacente.

Ora, immaginate di essere un bambino di sei anni seduto in braccio a vostra nonna, nel piccolo palco ad osservare lo spettacolo, mentre lei vi traduce tutto quello che gli attori dicono in italiano per paura che voi non capiate una singola parola di quello che stanno dicendo. Ma a voi non importa, perché non avete bisogno di capire…voi lo state vivendo.

Siete lì sopra con quei attori, ad immaginare la scena, a dire quelle battute, a ridere con gli attori, a piangere e ad arrabbiarsi. Completamente rapiti dalla storia, affascinati dai personaggi e genuinamente stupefatti nello scoprire un mondo dentro al mondo…qualcosa che non vi lascerà mai più.
Ed è lì che si accese la fiamma. La mia fiamma, che dopo venticinque anni da quel giorno, da Cala dda ssa cerecia, continua ad ardere impetuosa dentro il mio cuore. Una consapevolezza che è difficile scoprire da così piccoli, ancora acerbi negli ingranaggi della vita. Ma quei ingranaggi, nel teatro, non contano. Conta solo la passione di un bimbo che scopre la propria ragione d’essere in un’istante.

Alla fine dello spettacolo, il sottoscritto di cinque anni chiese alla nonna chi erano quelle persone che stavano “laggiù, nel posto bello.” La risposta ce l’ho ancora in testa: ” Sono attori, bello de nonna. Loro raccontano le storie e le trasformano in realtà.”

Quello che dissi allora, quello che Ida Rinaldi Angelucci, la mia meravigliosa nonna, mi disse di rimando, diede inizio a quella che ora è la mia vita, il mio sogno, la mia esistenza:

“Anch’io voglio fare l’attore. Voglio raccontare le storie.”

“Chi meglio di te, che sei tanto chiacchierone? Studia, Vale’. Impegnate e racconta tante storie lì sopra che poi io te vengo a guardà! E’ sta giù da ‘sta cerecia, me lo devi promette! Che nun te serve, tanto tu sei già alto, bello de nonna…”

“Sì, promesso!”

Natale, per me, significa “promessa”. La promessa di rimanere giù da un albero di ciliegie per continuare a guardare in alto.

 

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