Quando andare in terapia è ancora motivo di discriminazione
Mi piace ricordare spesso i miei incontri virtuali che si sono trasformati in legami concretamente reali. Eleonora (laurea in lettere, aspirante avventuriera, amante delle cause perse e di romanzi divertenti, e per ultimo, assolutamente cat lover) è uno di questi incontri: un club del libro (e un libro che non era piaciuto praticamente a nessuno), una sensibilità che ci ha subito fatto sentire simili. Non mi capita facilmente di trovare persone a cui istintivamente attribuisco una sensibilità delicata e profonda. La sensibilità è una qualità strana: spesso si nasconde, a volte si costruisce con fatica… Ma a volte è istintiva, è carattere, è storia personale. Con Eleonora mi sono da subito sentita in grado mostrare la mia sensibilità senza filtri. Questo è il mio modo di presentarvi Eleonora, e ho deciso di cominciare così perché l’episodio che vi sto per raccontare c’entra molto con la sensibilità. In primis con la mia, anche se la protagonista qui è lei.
Apro instagram. Scorro le storie. Sento Eleonora raccontare, mi blocco. Alla ricerca di una famiglia ospitante per fare un percorso au pair di un anno all’estero, si ritrova a dover compilare un questionario. Lo compila. Appare una domanda un po’ strana, risponde.
Sei attualmente / sei stato in terapia?
Risponde sì.
E poi scopre che per quel motivo, lei, non può partire. Perché è considerata fragile, non in grado di superare le sfide, perché se sei in terapia, allora non sei “in salute perfetta”. Non saprei dirvi perché questo episodio mi ha colpito con così tanta forza, ma l’ho trovato potententemente ingiusto. E allora ho chiesto a Eleonora di aiutarmi a parlarne, e lei, per fortuna, è solo felice di farlo.
Quando ho posato il telefono dopo aver parlato con la ragazza dell’associazione con la quale avevo intenzione di partire sono rimasta per un indeterminabile momento senza parole. Quando avevo compilato l’application per iscrivermi al programma non avevo esitato un attimo a dire che sì, vado in terapia. Ero convinta (e lo sono ancora) che sarebbe stato un punto a mio favore, un segno che ci tenevo alla mia salute a 360 gradi, e pensavo che il fatto di riflettere ogni settimana sulle mie azioni, sul mio mondo e su me stessa potesse essere visto come una qualità. Così non l’hanno considerato, giustificando il rifiuto con le stringenti leggi americane.
Ancora più di sasso mi ha lasciato la risposta alla mail nella quale chiedevo chiarimenti: mi veniva detto che avendo intrapreso un percorso di psicoterapia sarei più fragile degli altri, e che un anno all’estero avrebbe potuto acuire la mia fragilità.
Ho deciso di rendere questa storia pubblica. Non tanto perché volessi parole di conforto ma piuttosto perché non mi capacito di come nel 2020 sia necessario giustificare una scelta che come dice Luca Mazzucchelli è dei “coraggiosi e dei responsabili” (Luca ha ancora nelle storie in evidenza il commento alla vicenda, nel circolato “Roba da matti”).
Io consiglierei a tutti senza alcun dubbio di intraprendere un percorso del genere e anzi, sono convinta che per alcune categorie dovrebbe essere un passaggio obbligato: educatori, insegnanti di qualsiasi grado, medici, infermieri, coloro che quotidianamente si occupano della crescita, della cura e hanno a che fare con persone che vivono momenti delicati. Ne sono convinta non solo perché tutelerebbe il “fruitore” del servizio, ma anche colui che lo presta.
Eppure in Italia e nel mondo, nel 2020 andare in terapia è un lusso di pochi. È un lusso perché per usufruire di questo servizio bisogna informarsi, cercare, insomma bisogna volerlo davvero fortemente. Ma sarebbe la stessa cosa se sentissimo un dolorino inspiegabile ad un braccio? In questo caso non riuscendo a identificare il motivo del disagio andremmo dal medico. Perché invece se ci fosse qualcosa che non ci torna in un nostro comportamento o nel comportamento di un nostro caro/collega/amico non dovremmo parlarne con coloro che sono esperti di comportamento e di sentimenti?
In molti ritengono che andare dallo psicologo sia sì un lusso, ma un lusso in termini economici. Questo non è del tutto vero. Perché se è vero che il costo di un terapista che opera privatamente è quello di uno specialista (non ci lamenteremmo mai di un ortopedico privato che si fa pagare il giusto), è anche vero che ci sono soluzioni per tutte le tasche.
Prima di tutto ci sono i consultori (e qui sento già le urla di orrore e le corse a gambe levate) realtà che sul territorio offrono consulto di diverso tipo tra cui consulti psicologici che solitamente per un tot numero di sedute sono gratuiti, poi ci sono gli ambulatori ospedalieri. Infine esistono anche aziende private multi-specialistiche che tra i loro servizi offrono sedute terapeutiche a prezzi calmierati.
La verità è che viviamo in un mondo che presta davvero molta poca attenzione all’interiorità della persona. Nel quale i disagi psichici vanno nascosti, non vanno nominati e non se ne può parlare. Ammettere di provare un disagio che non ci si riesce a spiegare è un atto di coraggio, non la normalità. Perché potrebbe capitare davvero a tutti di vivere un momento di spaesamento, di difficoltà, di non comprensione delle proprie emozioni o degli effetti che le emozioni degli altri hanno su di noi. E non è vero che bisogna farcela da soli. Non è vero che si debba essere forti per forza.
Da quando ho deciso di raccontare questa storia mi sono arrivati tantissimi messaggi di solidarietà. Questo mi ha reso davvero molto felice. Ma il motivo per cui ho deciso di condividere quanto mi è successo non è per avere solidarietà ma perché nel mio piccolo spero che la voce si sparga e qualcosa inizi a cambiare. Perché se anche solo una persona decidesse di intraprendere un percorso psicoterapico oppure decidesse di non lasciarsi discriminare in famiglia, sul lavoro, tra gli amici per aver deciso di “andare da uno bravo” sentirei che questo mondo sarebbe un pochino di più un mondo in cui è bello abitare.
Uno scambio culturale, un momento di formazione e di crescita personale: è questo che di solito ci si immagina come anno au pair. Come è possibile che ancora oggi, in ambiti culturali e formativi, la terapia sia un tabù, e peggio, un elemento di discriminazione? Ho sempre avuto ammirazione per chi mi parlava dei suoi percorsi di terapia: perché è vero, oggi ci vuole molto coraggio a decidere di chiedere una consulenza, i tabù legati all’andare da uno psicologo sono talmente tanti che la frase che più sento ripetere è “sto valutando di andare da uno psicologo”, ma poi quasi nessuno ci va. Io per prima. Ho deciso di dar voce a Eleonora questo mese perché il tema mi sta molto a cuore, e perché credo che, come per tante cose, bisogna partire dalla scuola. Il processo di crescita può essere davvero difficile, quest’anno soprattutto, e anche se alcune scuole hanno iniziato da anni ad avere uno psicologo di riferimento, questo non basta. Bisogna parlare ai bambini, ai ragazzi e agli adulti per far capire che qualsiasi percorso che abbia al centro la loro interiorità e soprattutto la consapevolezza di se stessi è uno strumento in più per affrontare la vita, in ogni sua sfaccettatura. E magari piano piano diventerà normale volersi capire un po’ di più, e si potrà far un’esperienza come questa senza dover mentire sul fatto di vedere uno psicologo.
Credit illustration: Marylong
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