Scuola del Doppiaggio e scuole di doppiaggio
Che ansia quando, da piccoli, iniziavamo a vedere le prime pubblicità di zaini, quaderni e diari già a fine luglio. Era la rappresentazione perfetta di quello che, nelle zone capitoline in cui vivo, viene definito “presa a male”. Anche per uno come me che, in generale, è sempre andato volentieri a scuola.
Bèh, sarà per questo rientro “anomalo” post-pandemia (che poi tanto “post” non è), o forse sarà perché molte persone mi scrivono spesso chiedendomi consigli su scuole e corsi di doppiaggio, ma mi sono trovato a riflettere sull’importanza dell’istruzione. Applicata al mio mestiere in particolare, è ovvio.
Per questo motivo, vorrei fare un po’ il punto della situazione sul percorso per approcciarsi al doppiaggio.
Mettiamolo subito in chiaro: non esiste un percorso. Sto ancora cercando di capire appieno come si fa questo mestiere: figurarsi se posso permettermi di indicare a chicchessia la strada da seguire.
Posso indicare la strada che ho seguito (e sto seguendo) io. Quello che per me ha funzionato. Nessuno ha la verità in tasca. Io meno di tutti.
Cominciamo dalle basi.
«Ma tu fai solo il doppiatore o ti piacerebbe anche fare l’attore?»
Questa domanda è esattamente identica a
«Ma tu fai solo il cardiologo o ti piacerebbe anche fare il medico?»
Il doppiaggio è una specializzazione del mestiere dell’attore. Il fatto che il pubblico percepisca (o si illuda di percepire) solo la voce di un doppiatore, non cambia il fatto che, al leggio, si recita. Si recita cercando di fare nostra nelle tre ore del turno un’interpretazione che l’attore originale ha messo in piedi in sei mesi / un anno di lavoro. Perciò un doppiatore sarebbe più bravo dell’attore originale?
Ovviamente no (salvo qualche eccezione). Al doppiaggio abbiamo la fortuna di lavorare sul prodotto finito: di immedesimarci nel personaggio aggrappandoci all’immedesimazione già “pronta” dell’attore che doppiamo.
Tutto questo per dire che la prima cosa necessaria per avvicinarsi al doppiaggio è saper recitare.
Recitare non significa saper imparare a memoria una battuta. Significa padroneggiare con naturalezza la dizione, saper gestire la respirazione, avere un’articolazione fluida, saper decodificare le emozioni di una scena, farle proprie e riproporle in modo credibile. Significa saper gestire i propri movimenti (sì: anche al leggio ci si muove. Io, per esempio, mi muovo un sacco).
Recitare è tutto questo e molto altro. Volersi avvicinare al doppiaggio senza avere almeno delle solide basi di recitazione è come voler guidare una Harley Davidson senza essere mai andati neanche in bicicletta.
Abbiamo detto che il doppiaggio è una specializzazione del mestiere dell’attore.
Come tutte le specializzazioni, richiede competenze molto precise e il sapersi destreggiare in un ambiente lavorativo e con strumenti estremamente specifici.
E per “strumenti” non intendo solo il microfono e il leggio. Parlo di tutto il nostro apparato fonatorio, che va gestito in modo particolare a seconda del prodotto, della sala in cui incidiamo e delle esigenze del direttore.
Bisogna sapersi dimenticare di se stessi e immergersi totalmente nel frammento di scena (chiamato “anello”) sul quale stiamo lavorando.
Per imparare tutte queste cose, io ho frequentato delle scuole. Il mio maestro nei primi anni di formazione è stato Massimo Giuliani, e l’ho seguito per quattro anni. È stato anche il primo direttore col quale ho lavorato, e vi garantisco che gli insegnamenti di chi, come lui, questo mestiere l’ha imparato da bambino e dai più grandi doppiatori della Storia, sono dei tesori che mi porterò dietro a vita.
Finite le lezioni di Massimo, poi, ho iniziato ad andare in giro per gli studi. Non per chiedere provini! Ci mancherebbe! Per assistere. Proprio come un tempo si veniva presi a bottega per osservare il lavoro di un artigiano e “rubarne” la manualità, i trucchi, l’esperienza, così trovo fondamentale, una volta apprese le nozioni del doppiaggio, osservare quelle stesse nozioni venir messe in pratica da degli straordinari professionisti.
Non sempre era possibile assistere. A molti colleghi non fa piacere essere osservati mentre lavorano, cosa peraltro legittima e comprensibile. Ma quando si poteva, era una gioia per il cuore e per le orecchie.
Dopo un bel po’ di tempo passato ad assistere con educazione, attenzione, rispetto e silenzio, capitava che fosse proprio il direttore / direttrice a propormi di fare un provino. E se il provino andava bene, si poteva sperare di essere chiamati per i primi brusii.
Se anche i brusii andavano bene, si poteva allora sperare di essere chiamati per i primi piccoli ruoli: Uomo 2, Poliziotto 6…
E se anche quelli andavano bene, magari l’Uomo 2 diventava “Jonathan”, e invece di una sola battuta ne aveva quattro. Di cui una bella lunga.
E così via.
Da qualche anno a questa parte, però, le major hanno imposto misure di sicurezza e segretezza a dir poco castranti: gli stabilimenti di doppiaggio sono per lo più blindati. Accede solo chi è lì per il turno, documento d’identità alla mano. Questo ha fatto sì che anche solo chiedere di seguire un turno diventasse un’impresa ciclopica, e molti direttori e direttrici di doppiaggio se ne sono ripetutamente lamentati perché i primi ad aver bisogno di voci nuove sono proprio loro.
Poi è arrivato il Covid. E anche su questo fronte, quello schifosissimo coronavirus si è abbattuto come una mazza ferrata. Ne ho già parlato sempre qui su Voci di Corridoio.
I turni sono stati “spezzettati”: si entra in sala un attore alla volta, tra un attore e l’altro la sala viene sanificata, in regia ci sono solo direttore e fonico opportunamente separati da una barriera di plexiglass. E anzi, in alcuni studi non c’è neanche più il direttore, che tiene le redini del turno lavorando da remoto. Quindi, se fino a febbraio assistere era diventato molto difficile, ora è fantascienza.
Questo cosa significa? Che “chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori”?
Certamente no.
È solo molto difficile affacciarsi, ma più di una società ha già organizzato giornate di provini proprio per ovviare a questi impedimenti, e lo stesso ha fatto l’ANAD (Associazione Nazionale Attori Doppiatori, la nostra Associazione di categoria). A dimostrazione che questa famigerata “casta” del doppiaggio non è poi quel covo di bestie assassine che molti amano dipingere.
Quando ho iniziato io, di impedimenti ce n’erano sicuramente meno, ma anch’io ho preso le mie porte in faccia e ho incassato i miei “no”. E a ripensarci adesso, anche quelli mi hanno formato.
E la formazione non finisce mai. Si continua a studiare, a fare esercizi. Sempre. Altrimenti una mattina ti svegli e scopri che le “R” non ti escono più tanto bene, che le “S” ti fischiano un po’, che “GL” ti esce “Y”… ed è la fine.
Ecco. Questa è la situazione attuale del doppiaggio, sia dal punto di vista didattico che lavorativo. È una scuola dura. Non è facile per niente, ed è giusto che chi vuole avvicinarsi lo sappia. Ma se si è determinati, se si ha una vera passione, tanta pazienza, rispetto e voglia di imparare, nessun ostacolo è insormontabile.
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