Il richiamo dell’infinito
Era una calda e umida giornata d’estate.
Forse era il 2018, forse il 2017, non ricordo bene, ma non è importante.
Quello che conta è il colore dell’oceano e i ricordi sporchi di sabbia.
Il tour di quell’anno prevedeva una tappa a Kamakura, antica capitale del Giappone, un coacervo di splendidi santuari, templi con fiori rigogliosi e statue antiche.
Terrazze sul blu del mare.
Terrazze sul blu del mare.
No, non è un errore, la ripetizione, è una memoria che riaffiora riecheggiando.
Non so se vi è mai capitato, ma l’oceano, il mare, l’acqua che scorre, ti chiama.
Sei impegnato a fare qualsiasi altra cosa, scrivi picchiettando sulla tastiera di un pc, servendo un cliente, stai lavorando all’estero, diciamo accompagnando un gruppo di viaggiatori in Giappone e, d’improvviso, senti la sua voce che ti chiama.
E non puoi fare altro che rispondere.
Quella volta ho chiesto chi avesse voglia di prolungare la giornata facendo una tappa non prevista dal programma, 4 o 5 mani si sono alzate, gli altri erano (giustamente) troppo stanchi.
Mi sono assicurata che chi stava tornando in hotel fosse sul treno giusto, che li avrebbe portati dritti dritti alla fermata desiderata e poi è cominciata l’avventura.
Non lontano dal rinomato grande Buddha di Kamakura c’è una piccolissima stazione da cui passa l’Enoden, un trenino elettrico di altri tempi che placidamente e quasi cullandoti ti porta alla spiaggia.
Te la fa assaporare accostandovisi durante la sua corsa e mostrandoti, come fosse un quadro, i surfisti in costume che si lanciano tra le onde.
Come la vigilia di Natale pregusti i regali prima di scartarli, così sul treno sogni l’acqua prima di sfiorarla.
Siamo scesi in una stazione altrettanto piccola, con uccellini di metallo posati all’entrata.
Non abbiamo poi avuto bisogno di cartelli, bastava seguire il richiamo.
Tutti coloro che erano scesi alla nostra fermata si muovevano come parte di una danza, come in un sogno verso il profumo di salsedine.
Avremo camminato 20 minuti, o forse 5, magari 40. Abbiamo fluttuato scherzando e sentendo la pelle fremere.
E poi, dopo l’ultimo edificio basso di cemento grigio, eccolo.
L’oceano si è aperto davanti ai nostri occhi, il cielo blu che colava nelle acque cristalline.
La canzone della risacca giungeva dolce alle nostre orecchie.
Ci siamo tolti le scarpe e, mentre il giorno si tramutava in notte e i colori giocavano a rimpiattino con le nuvole, i nostri piedi sono affondati nella sabbia calda, morbida ma allo stesso tempo compatta.
Siamo corsi nell’acqua fino a bagnarci i jeans sotto le ginocchia, abbiamo riso, in lontananza gli accordi di una chitarra che suonava al tramonto.
Pace.
La giornata è finita in un vecchio e piccolo ristorante senza troppi fronzoli, gestito da un’anziana donna e da sua nipote.
Il menù solo in giapponese proponeva foto scolorite di piatti a base di pesce di cui non sapevamo il nome.
A volte mi chiedo se l’ho vissuta davvero.
Ma poi sento ancora quel richiamo e so.
Love, Monigiri
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