Era il tempo di Giochi Senza Frontiere
In questo mese dedicato ai giochi d’acqua, all’estate e al fresco non posso fare a meno di tornare con la memoria alle estati della mia infanzia e a uno degli appuntamenti che l’hanno maggiormente caratterizzata.
Parliamo di una storia fatta di competizioni ideate per unire e non per dividere e dove i confini diventavano così sottili che ci potevi vedere attraverso.
Era il tempo delle frontiere, di gare bizzarre e di azioni eroiche misurate con il cronometro.
Un tempo di giochi, ma non giochi qualunque.
Era il tempo di Giochi Senza Frontiere.
Anni fa in Europa, se volevi passare da una nazione all’altra dovevi attraversare le frontiere e subito capivi che nel fare ciò c’era qualcosa di magico.
Approssimandosi a quelle barriere che delimitavano i confini in maniera così netta, sentivi che in qualche modo esse rappresentavano l’idea che a pochi metri di distanza, un’altra cultura e un’altra lingua aspettavano d’essere esplorate.
Tuttavia questo non giovava all’idea di Europa Unita verso la quale quelle stesse nazioni cercavano faticosamente di mettersi in cammino.
Ecco allora che tra gli sforzi tesi a trovare un’unione qualcuno pensò bene che, ad esempio, un rafforzamento dei rapporti di amicizia tra Francia e Germania poteva essere ottenuto per mezzo di un torneo di giochi tra questi due paesi.
Questa era l’idea iniziale del Generale de Gaulle alla quale Pedro Brime, Claude Savarit e Jean-Louis Marest affiancarono la proposta di coinvolgere altri paesi europei.
Nacquero così i Giochi Senza Frontiere.
Forse il primo e più concreto passo verso l’Unione Europea.
I Jeux sans frontières, in sigla JSF per l’appunto, si svolgevano d’estate. Ogni anno in un paese diverso (fino al 1995). Le nazioni erano chiamate a partecipare cimentandosi in sfide così assurde che sembravano concepite da un ingegnere di Cartoonia.
Cercate qualche video online se non mi credete.
Gli atleti (perché di atleti si trattava) si impegnavano a tenere alto l’onore del proprio paese e lo facevano divertendosi. Proprio questo ha reso i Giochi un fenomeno unico nel suo genere. La presenza di una rivalità ludica, senza le scorrettezze, la rabbia o la pressione che spesso accompagna altri fenomeni sportivi dello stesso livello.
Non serviva vincere, per vincere.
La trasmissione veniva mandata in diretta praticamente da tutta Europa essendo un programma dell’UER (Unione europea di radiodiffusione). A trasmetterla erano le tv affiliate e il suo successo superò qualsiasi previsione travolgendo l’Europa
Pare che addirittura, nel 1977 una puntata di Giochi senza frontiere raggiunse un’audience di 17 milioni di spettatori.
Ogni atleta portava i colori del proprio paese. L’immancabile pettorina con due lettere a caratteri cubitali permetteva di riconoscere i propri connazionali nelle gare di gruppo. Quando una nazione giocava “in casa” il tifo del pubblico era naturalmente di parte, anche se questo generalmente veniva vissuto più come una rispettosa conseguenza piuttosto che come un punto di forza.
Adesso la trasmissione non esiste più, o almeno non nella sua forma originale.
Eppure, e questo è di per sé insolito, resta per me una delle poche storie che ha avuto un lieto fine prima ancora di finire.
Grazie a Giochi Senza Frontiere l’Europa si è trovata per davvero unita, anche se solo per pochi giorni all’anno. Non dal punto di vista economico e politico ma da quello che conta davvero: quello umano.
Lingue e culture diverse che unite dal quel desiderio spesso sottovalutato che è la voglia di divertirsi, entravano in contatto senza spendere tempo a chiedersi cosa avrebbero ottenuto in cambio.
Mi mancano i Giochi e naturalmente mi mancano quegli anni.
Era il tempo delle frontiere, di rivoluzioni bizzarre e di azioni piccole pensate per unirsi a quelle degli altri fino a farne una grande.
Era il tempo di Giochi Senza Frontiere.
Ed è stato un bellissimo tempo.
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