Bentornato, Winnie Pooh

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Bentornato, Winnie Pooh

L’altra sera, vagamente nostalgica, ho deciso di guardare Ritorno al bosco dei 100 acri. Non l’avevo mai visto e mi aspettavo una delusione, probabilmente influenzata dagli ultimi live action della Disney. Invece all’intro ero già lì a piangere, devastata da quel passaggio all’età adulta che abbiamo tutti affrontato e che nel film era rappresentato così bene dalla festa d’addio a Christopher Robin, dalle allusioni che ogni adulto vede in quei saluti. E nel triste saluto alla parte più bella dell’infanzia, l’amore per il non far niente, per il tempo speso per se stesso. Per i giochi, le esplorazioni, la noia infantile: per tutto ciò che ci fa crescere e ci fa essere allo stesso tempo bambini.

Il dolce far niente spesso porta alle cose migliori.

È una delle prime cose che perdiamo, una volta che abbiamo oltrepassato la soglia: forse ci manteniamo stretti il ricordo e l’illusione di quel tempo ancora un po’, mentre siamo adolescenti. Ma poi qualcosa si rompe, e ci sentiamo fagocitati da una realtà che corre, tu stai correndo e non ti sei nemmeno reso conto di quando hai cominciato, tutti attorno a te corrono e quello sembra l’unico modo possibile di vivere. Ho avuto diversi periodi di smarrimento in cui tutto mi sembrava troppo frenetico, le mie fatiche non sembrano mai essere abbastanza, c’era sempre altro da fare, da conquistare, da meritare. È una fase di folle ricerca in cui ti senti sempre indietro, perso e perdente: il tempo scorre via tra le dita e tu non senti di essere arrivato da nessuna parte. Ma di preciso dov’è che dobbiamo andare? Il problema dei nostri giorni è questo: tutti corrono ma tutti continuano a cambiare direzione. Una meta precisa non c’è, ma la libertà di poter scegliere la destinazione ci fa sentire spaesati, senza bussola in un mondo in cui le strade sono a migliaia, i viandanti non hanno tempo di fermarsi a darti indicazioni, e le destinazioni scorrono su uno schermo dello smartphone irreali e irraggiungibili. Ci sembra vitale raggiungere un luogo il prima possibile, ma abbiamo paura di sbagliare, di sprecare la grande occasione che abbiamo di poter scegliere – abbiamo paura di scegliere male, e questo si trasforma nel terrore di qualsiasi decisione.

Christopher Robin: Da quale parte?
Pooh: Io arrivo sempre dove voglio andare solo allontanandomi da dove sono
Christopher Robin: Davvero?

Ecco, tornando a Pooh. È il dialogo con l’infanzia a commuovermi, a farmi sentire teneramente fragile. Christopher Robin non ragiona astrattamente su cosa significhi assumersi le responsabilità, i pesi e le ingiustizie di una vita adulta (che passa attraverso il lutto, la guerra…): Christopher Robin dialoga con la sua stessa infanzia, con il sé bambino. È ritrovare una parte di noi, assopita – se siamo fortunati – in attesa nella nebbia – spaventata, forse, per tutti i cambiamenti avvenuti. È magico il modo in cui Christopher si senta così legato all’orsetto che, d’un tratto, ricompare nella sua vita: sparisce ogni freddezza e distacco mostrato fino a quel momento (persino nei confronti della figlia) e fin da subito avviene una trasformazione (che è in qualche modo un ritorno). Christopher si sente meravigliosamente bene ad allentare le prese, a rifiondarsi in quel suo mondo lontano. Certo, non è facile: e la storia parla di questa difficoltà. Ma il concedere a Pooh praticamente ogni cosa, fin da subito, è già il significato finale del film.

Anche se la trama pura e semplice alla fine si va un po’ banalizzando, la scena finale è struggente quanto l’inizio e ci ricorda una lezione antichissima, eppure sempre attuale: non dimentichiamoci del presente a causa dell’ossessione per il futuro.

Pooh: Che giorno è oggi, Christopher Robin?
Christopher Robin: Oggi è Oggi.
Pooh: Oh… Oggi è il mio giorno preferito allora.

 

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