Uniti nella diversità, la discriminazione nei videogiochi

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Uniti nella diversità, la discriminazione nei videogiochi

Il titolo di oggi è, come avranno sicuramente inteso i più consapevoli, il motto dell’Unione Europea. Si tratta di una frase straordinariamente attuale, se si considera il fatto che è stata formulata esattamente vent’anni fa.

E se all’epoca l’obiettivo era quello di unire popoli culturalmente e nazionalmente diversi, oggi il significato si può legittimamente trasformare in un senso di unione all’interno del popolo stesso, intendendo con ciò il fatto che dentro un gruppo possano esserci individui fortemente differenti, ed implicitamente ammettendo che ciascuno di essi possa dare un contributo essenziale alla buona riuscita del progetto collettivo. Del resto, negli ultimi dieci/quindici anni si è assistito sempre più ad uno spostamento sul piano interno delle istanze sociali di eguaglianza: dalla lotta per i diritti degli omosessuali alla tutela delle minoranze; dalla (ri)presa di coscienza delle situazioni sfavorevoli per le donne ai tentativi di risoluzione dei problemi di integrazione per gli immigrati.
I media, ed i videogiochi, non hanno certamente fatto eccezione in questo senso: seppure non si possa dire per loro di essere stati un medium particolarmente “bianco”, negli ultimi anni hanno preso fortemente coscienza dei problemi sociali interni e hanno, a volte eccessivamente, cercato di porsi ad un livello moralmente superiore, un po’ come a dire “guardateci: siamo dalla parte giusta della storia”.

Il discorso qui, che in parte è anche rischioso, si gioca sulla forzatura nel trattamento delle tematiche – una forzatura ancora più evidente nei videogiochi che in altri medium.
Precedentemente in questa sede avevo già avuto modo di affrontare l’interessante tema dell’omosessualità in The Sims, che ha cambiato profondamente il modo di giocare e perfino di creare il proprio personaggio a mano a mano che la società mutava i suoi costumi, ed anzi, in questo senso la saga di The Sims si è sempre mostrata molto all’avanguardia nel trattare certi argomenti.

È importante rimarcare che quando si parla di videogiochi si deve avere ben chiara la profonda differenza tra essi e qualsiasi altro medium: l’interattività. È questa che caratterizza il videogioco e lo rende profondamente diverso rispetto ad altre opere dell’ingegno umano. Sicuramente, nel corso del tempo sono stati due i generi che nei videogiochi si sono posti maggiormente il problema di rispondere alle questioni di diversità e di integrazione: il Gioco di Ruolo e l’Avventura Grafica. Sono questi i generi con il maggiore dialogo, il maggiore impegno morale e la maggiore indagine nelle zone grigie della nostra coscienza.

Ma per il primo, che è anche di gran lunga il più diffuso, vale un discorso estremamente interessante: attraverso l’interattività spesso il personaggio è creato dal giocatore, e può essere di qualsiasi etnia. Tutte le opzioni di customizzazione hanno a che fare solo ed esclusivamente con l’estetica, e l’avventura non avrà alcuna differenza a seconda del colore della pelle del personaggio giocante. Certo, possono essere affrontati temi di razzismo o di mancata integrazione nel corso della storia del gioco, e possono anche riguardare il personaggio principale, ma non sono mai legate, come nella realtà, alla scelta iniziale, fatta nella schermata di creazione del personaggio: le istanze discriminatorie sono perché sono, perché gli sviluppatori hanno deciso così nell’ambito del voler raccontare una storia. Ma anche all’interno di quella storia, sarebbe impensabile lasciare al giocatore la possibilità di compiere scelte razziste soltanto dietro la giustificazione dell’interattività del medium: si tratta quindi di una forzatura rispetto alla natura teoricamente libera delle scelte del gioco di ruolo, per quanto ovviamente giustificabile.

A fronte di ciò, i giochi moderni hanno cercato di forzare ciò che nella loro essenza non esisteva, cioè la consapevolezza razziale/discriminatoria, nel tentativo di immettersi in un discorso ideologico che non era il loro. Si è perfino giunti a casi estremi: in alcuni videogiochi il “cast” di personaggi è talmente differenziato da risultare forzato, e da dare addirittura l’impressione al giocatore di trovarsi dinnanzi ad una mera elencazione pedissequa delle categorie umane esistenti, nel quale tutte le diversità dell’umanità sono sbandierate in modo esagerato. Ma come abbiamo visto prima la discriminazione si può combattere anche in un altro modo, cioè eliminando il problema alla base, creando strutture che non la contemplino proprio: il personaggio scuro di pelle creato dal giocatore non sarà mai discriminato per questo, perché il gioco non è fatto per quello. Ed ecco che emergono quindi due diversi metodi per raggiungere lo stesso risultato, cioè l’unione nella diversità: l’eliminazione di ogni preconcetto discriminatorio, oppure l’educazione attiva, sbandierata, a volte perfino forzata.

In Italia è difficile rinvenire giovani che discriminino verso il mezzogiorno, perché la nomea del “terrone” è finita: appartiene al passato, non se ne parla quasi più se non con intenti comici. Perfino il principale partito politico che si faceva portavoce delle istanze anti-meridionaliste ha cambiato nome e ha smesso di sproloquiare a tale proposito. Questo è accaduto non tanto per via di un intervento attivo nelle coscienze di ognuno, quanto piuttosto perché è semplicemente venuta meno la concezione stessa di diversità alla base della quale si costruiva poi la discriminazione: il fatto di provenire da un altro luogo, o di avere un certo colore della pelle, deve essere considerato normale, ininfluente. Né più e né meno come nei giochi di ruolo non vi è alcuna differenza se si crea un personaggio bianco od uno nero. In questo senso i videogiochi avrebbero potuto offrire il loro giusto contributo: avrebbero educato il videogiocatore a mondi nei quali semplicemente non c’era alcuna concezione di “diverso” associata ad una diversa estetica, per esempio. Invece di forzare il giocatore, come spesso avviene, a scelte “dalla parte giusta della storia” e a prendere coscienza del brutto e cattivo mondo discriminatorio, avrebbero potuto perseguire la strada alternativa, quella dell’unione nella diversità, semplicemente perché la diversità veniva meno: non era importante. Come un’incognita che viene rimossa a piè pari dall’equazione.

Ad altre opere si dovrebbe quindi lasciare il compito di un’educazione attiva e decisa in tema di discriminazione, ma il videogioco dovrebbe, proprio per la sua natura di interazione, creare un sistema di neutralità totale, di ininfluenza nei confronti dell’estetica, del colore della pelle, dell’orientamento sessuale. Soltanto combinando entrambi i modi le discriminazioni potranno finire, ma è necessario l’intervento mirato di tutte le arti, ciascuna nel modo più opportuno per la loro stessa natura. E per i videogiochi, come dimostrano le infinite creazioni dei personaggi che abbiamo fruito nel corso degli anni, la strada da percorrere è quella dell’eguaglianza sostanziale.

di Giacomo Conti, MMO.it

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