3 domande a Giulia F : un medico in prima linea
Ci siamo sempre chiesti cosa proveremmo nell’intervistare un supereroe, o, più semplicemente, un eroe dei fumetti. Quali domande potremmo porre a un crociato incappucciato come Batman o quali sensazioni vivremmo nello stare nella stessa stanza con Capitan America? Ironicamente, in questa situazione d’emergenza siamo riusciti a far diventare realtà questa immaginaria ipotesi: sì, abbiamo intervistato un supereroe.
No, fermi! Non si tratta di Batman o di Capitan America ma di un eroe molto più reale, più concreto… e più umile.
Giulia F. è medico specializzato in malattie dell’apparato respiratorio, la branca nota come pneumologia. Laureatasi con lode, ha approfondito gli studi con una scuola di specializzazione e ora lavora in pneumologia da due anni. Per esigenze dell’ospedale ha fatto anche molti turni in pronto soccorso fino a marzo, quando il Covid-19 ha rovesciato tutti gli equilibri e reso necessaria la riorganizzazione del lavoro. Da marzo Giulia è nel reparto Covid e il responsabile è il primario delle Malattie Infettive. Pratica broncoscopie (in casi legati al Covid ma non solo) ed è iscritta ad un master di pneumologia interventistica (che è stato naturalmente sospeso e non sa se e quando proseguirà).
Abbiamo avuto l’onore di rivolgerle le nostre tre domande alle quali Giulia ha gentilmente risposto, sorridendo calorosamente attraverso la sua maschera da eroina.
NDD: Cosa si prova a dover comunicare la positività al virus ad un paziente?
GIULIA:La comunicazione di brutte diagnosi è una cosa che non ti insegna a fare nessuno. Non facciamo corsi universitari di comunicazione e questa fase delicatissima è affidata alla nostra esperienza e sensibilità personale. Solitamente non è drammatico comunicare la diagnosi di una qualsivoglia infezione perché, per quanto sia grave, abbiamo quasi sempre i mezzi per combatterla. In questo caso ci sono molte complicazioni che rendono questa comunicazione più difficile; prima tra tutti l’impossibilità di essere fisicamente vicini ai pazienti, che vedono solo i nostri occhi attraverso le visiere. Non si può avere il conforto dei familiari, non si possono dare certezze circa l’efficacia della cura e l’andamento della malattia. E’ una comunicazione difficile, che io faccio cercando di infondere più speranze possibili.
NDD: I pazienti infetti che sono in terapia intensiva, come vivono la malattia e il non poter avere accanto l’affetto dei propri cari?
GIULIA: La maggior parte dei pazienti che sono in terapia intensiva non sono coscienti. Sono intubati, sedati, totalmente dipendenti (catetere vescicale, nutrizione artificiale, ventilazione meccanica). Non ho personalmente contatto diretto con questi pazienti (che sono sempre gestiti dai Rianimatori). Posso dirti, però, che i malati un poco meno gravi (che magari non hanno bisogno solo di ossigeno ma anche di ventilazione meccanica NON invasiva, quindi con caschi e maschere facciali) che ho avuto modo di incontrare avevano sempre un atteggiamento molto “richiedente” nei confronti del personale. Sanno che non possiamo passare molto tempo con loro e cercano di “ottimizzare” il più possibile questo breve tempo a loro dedicato. Qualcuno ti guarda implorante, chiedendo se guarirà, se è grave, quando potrà uscire dall’ospedale. Qualcuno ti chiede di non andare, di tornare presto, di non lasciarlo solo. Sono occhi impossibili da descrivere e da dimenticare.
NDD: Come ci si sente a dover affrontare una pandemia in prima linea, mettendo a rischio la propria salute ogni giorno e vedere che, nonostante tutto, ci sono persone che non seguono le linee guida governative?
GIULIA: Da un po’ di tempo penso a cosa voglia dire essere “in prima linea”. Come credo ogni medico che si sia specializzato negli ultimi anni, nel mio smartphone ho una chat whatsapp degli ex specializzandi. Quando gli amici di Crema e di Bergamo hanno iniziato a raccontare cosa stava succedendo non mi sembrava vero. Se da un lato ero preoccupata per la loro salute e per le terribili scelte che si sono ritrovati ad affrontare da un momento all’altro, dall’altro lato ero ammirata dalla prontezza con la quale si sono immediatamente formati e preparati. Ho pensato che loro sì, lavoravano davvero in prima linea: come se fossero in guerra, senza turni, senza riposi, senza recriminazioni ma solo con la determinazione di vincere la battaglia o, almeno, di riportare il maggior numero di soldati a casa. Poi è stato chiesto anche a me di lavorare a contatto con i pazienti positivi. L’ho trovata una cosa assolutamente ragionevole e giusta: i pazienti sarebbero pian piano aumentati. Ed ecco dove ci troviamo ora: i pazienti aumentano e lavoro in reparti completamente dedicati al Covid. Poi torno a casa, dalle mie bambine, da mio marito. Naturalmente genitori, suoceri e familiari anche stretti sono stati eliminati dai miei contatti, ma non me la sento di allontanare anche loro. Quando torno a casa spero di non ammalarmi e che nessuno si ammali per causa mia. E’ davvero difficile non pensarci. E’ incredibile invece che ci siano persone che ancora non si rendono conto di tutto questo. Sinceramente non credo di conoscerne personalmente; nel mio condominio, tra i miei amici e familiari NESSUNO mette in atto comportamenti non corretti. Non è semplice ma bisogna a tutti i costi rispettare le disposizioni.
Il pensiero del futuro mi lascia senza parole. Le bambine rivedranno i compagni di scuola? Ne usciremo tutti sani e salvi? Riprenderemo una vita normale? Quando? Come saremo cambiati DOPO? Ecco, questi sono pensieri che mi lasciano senza niente da dire.
Portiamo a casa la pellaccia, e poi si vedrà.
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