Jenner, Pasteur, Sabin: tre scienziati-moschettieri contro le epidemie
Siamo in Inghilterra, verso la fine del 1700. Il vaiolo imperversa tra la popolazione, mietendo migliaia di vittime ogni anno. I sintomi: febbre altissima, malessere generale, terribili lesioni sulla pelle. Le scarse condizioni igieniche delle città, specie delle zone povere, di certo non contribuiscono ad arginare la diffusione di questo morbo. Eppure, l’intuizione geniale di un brillante medico porterà al debellamento del vaiolo, non solo dal suo paese ma nel mondo intero.
Nel numero di questo mese andremo alla scoperta di tre eroi della medicina che troppo spesso passano dietro le quinte: Edward Jenner, Louis Pasteur e Albert Sabin. Attraverso tre diverse epoche storiche, vedremo quali sono stati i loro contributi nel campo della medicina, e in particolar modo delle vaccinazioni.
Dunque, iniziamo. Cos’è un vaccino?
Per vaccinazione si intende una pratica a scopo di profilassi o terapeutico: consiste nell’inoculare nell’organismo del paziente una soluzione contenente una versione indebolita di un agente patogeno (virus) oppure parti di esso. La persona vaccinata non contrae la malattia in tutta la sua forza, perlopiù mostra sintomi lievi senza ulteriori complicazioni. Successivamente, si ha l’immunizzazione: difficilmente quell’individuo si ammalerà, e se lo farà guarirà in fretta, con sintomi notevolmente attenuati.
In nostro sistema immunitario è una macchina straordinaria. Quando viene a contatto con una nuova minaccia, un virus, egli inizia a darsi da fare per creare degli anticorpi, le piccole mosche bianche buone che vedevamo in Esplorando il Corpo Umano. Sono come dei piccoli soldatini fatti su misura per combattere quel virus specifico, solo che spesso l’infezione, specialmente nel caso di patologie particolarmente dannose, ha il sopravvento. Tuttavia, se inoculiamo in corpo una soluzione contenente una versione debole del virus, magari anche un po’ fatto a pezzi, letteralmente, il sistema immunitario è comunque in grado di produrre gli anticorpi specifici. Però non ci ammaliamo, o lo facciamo lievemente: una volta guariti saremo immuni alla malattia poiché avremo un database di difesa immunitaria aggiornato. A questo punto possiamo proseguire il nostro viaggio.
Torniamo in Inghilterra, seconda metà del XVIII secolo. La rivoluzione industriale in atto sta apportando notevoli benefici alla popolazione, favorendo un aumento della natalità e una riduzione della mortalità. Purtroppo, in concomitanza allo sviluppo demografico si ha un rapido aumento nella diffusione dei contagi da vaiolo. Il tasso di mortalità medio era di una persona su 6. Solo a Londra si contavano mediamente 3.000 morti l’anno, 40.000 in tutto il paese. In Europa tale malattia era responsabile da sola di circa il 20% dei decessi annui.
All’epoca era pratica diffusa la variolizzazione, una tecnica per la quale una persona sana veniva incisa in un piccolo punto sulla pelle ed esposta a materiale infetto proveniente da un altro malato di vaiolo. Se eseguita correttamente portava all’immunizzazione del soggetto. Tuttavia, era una pratica decisamente rischiosa: non sempre veniva eseguita nelle corrette condizioni igieniche, ed era vettore di altre malattie infettive, in particolar modo delle malattie veneree.
Edward Jenner era un medico dalla brillante carriera: esperto chirurgo, era anche un rinomato naturalista membro della Royal Society. Già nel 1782 egli aveva correttamente identificato tre forme di vaiolo: quello umano (small-pox), quello dei bovini (cow-pox) e quello equino (grease). Il primo era la forma più diffusa, il secondo colpiva le mucche da latte e poteva essere trasmesso a chi le mungeva; la terza forma attaccava i cavalli e poteva tramutarsi per contagio nelle altre due forme.
Jenner osservò che le persone dedite alla mungitura risultavano perlopiù immuni al vaiolo umano: dedusse quindi che la malattia che contraevano dai bovini (cow-pox) fosse più debole rispetto al vaiolo: le persone guarivano molto più facilmente da questa versione del morbo, rispetto a quella umana. Fece dunque un esperimento: dalle piaghe di una mungitrice affetta da cow-pox estrasse del materiale infetto, e lo inoculò ad un bambino di nome James Phipps tramite piccole incisioni su entrambe le braccia. Era il 14 Maggio 1796. Il bimbo sviluppò dei sintomi lievi: una leggera febbre, un po’ di malessere. Successivamente, con la stessa tecnica, lo espose diverse volte a materiale proveniente da un malato umano di vaiolo. Phipps non diede più segno di sintomi, o di infezione.
Il medico inglese aveva inventato il primo vaccino nella storia: il nome stesso della procedura, la vaccinazione, deriva proprio dalle mucche, fonte della forma debole di vaiolo. Due decenni dopo, il vaccino del vaiolo era già diffuso in tutto il mondo, e venne messo in atto un pesante sradicamento della malattia, oggi scomparsa. Il lavoro di Jenner fu rivoluzionario sotto molti aspetti: in uno dei suoi trattati più importanti, “An Inquiry Into Causes and Effects of the Variolæ Vaccinæ” per la prima volta si fa uso del termine virus, veleno in latino. Jenner ebbe il merito non solo di scoprire il processo di vaccinazione, ma anche di dimostrarne l’efficacia sull’essere umano e la sua applicabilità su vasta scala.
Ci spostiamo ora in Francia, intorno alla seconda metà del 1800. Un giovane chimico si sta dando alla birra. Alt, non pensate male. Sta cercando di mettere a punto un sistema per evitare che la bevanda alcolica, ricca di zuccheri e meno acida del vino, vada incontro ad alterazioni durante la sua fermentazione. Infatti, mentre vini e altri distillati possono essere invecchiati per molti anni, la birra andava consumata poco dopo la sua produzione.
Capitava spesso che intere partite della dorata bevanda si deteriorassero perdendo completamente le sue apprezzate qualità, e nessuno capiva perché. Questo giovane studioso si chiamava Louis Pasteur: si adoperò in numerosi esperimenti nei quali scoprì che riscaldando brevemente la birra una volta imbottigliata ad una temperatura di circa 50 gradi risolveva il problema.
Il motivo? Quel breve ma intenso riscaldamento, pur lasciando pressoché inalterate le qualità del prodotto e non intaccandone la fermentazione, era in grado di eliminare spore, muffe e altri microorganismi responsabili delle alterazioni. Pasteur si occupò proprio di questo durante la sua lunga e mirabile carriera: dedicarsi a trovare soluzioni per i più gravi problemi che affliggevano l’agricoltura e la veterinaria. Gli venne persino offerta la direzione di un laboratorio nei pressi di Milano per studiare le malattie del baco da seta, risorsa importantissima all’epoca. Rifiutò, spinto dal suo sentito attaccamento verso la propria nazione, ma ciononostante condusse approfondite indagini sul tema, identificando correttamente l’origine delle patologie imputate. Salvò la produzione di seta dell’intera Europa dal disastro, fornendo metodi per individuare le uova sane e allevare generazioni sane di bachi.
Tuttavia, la sua fama è principalmente dovuta agli studi su microorganismi e batteri: per questo è considerato il padre della moderna microbiologia. Ognuno di noi ha avuto a che fare con il signor Pasteur, in un qualche momento della vita: il latte che beviamo, così come tanti altri prodotti di consumo comune, vengono sottoposti al processo di pastorizzazione, o meglio, di pasteurizzazione per garantirne la conservazione nel tempo.
Nell’800 andava ancora di moda la cosiddetta teoria della generazione spontanea; secondo alcuni, la vita aveva origine spontaneamente da elementi naturali inanimati. Per esempio, le mosche si originavano da sole dalla carne in putrefazione, rane e rospi sorgevano dal fango delle paludi, e così via. Due medici italiani, Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani, avevano già confutato anni addietro la generazione spontanea con alcuni esperimenti, che Pasteur riprese e perfezionò. Riempì alcune ampolle con un liquido di coltura, che portò ad ebollizione uccidendo qualsiasi microorganismo in esse contenute. Successivamente mostrò che nel liquido si potevano sviluppare organismi solo quando esso veniva a contatto con l’aria, che insieme all’ossigeno trasportava anche i batteri e le spore che poi proliferavano.
Proprio attraverso questo tipo di esperimenti egli intuì la natura microscopica di molti patogeni, fatto per nulla scontato per la cultura della sua epoca. Propugnò i principi base per le corrette norme igieniche da adottare durante le operazioni chirurgiche, e nell’ultimo periodo della sua vita si dedicò allo studio di alcune malattie gravi come il carbonchio e la rabbia, patologie per le quali sviluppò anche un efficace vaccino.
Pasteur fu uno scienziato formidabile, e la sua carriera fu per molti versi pionieristica: i contributi che diede in ciascuno dei campi in cui operò hanno avuto ripercussioni per lungo tempo a venire, e sono stati fondamentali per la fondazione della medicina moderna. Passiamo ora al nostro ultimo ma non meno importante ospite: Albert Sabin.
Cronologicamente parlando, Sabin è stato il personaggio più vicino a noi. Nato in Polonia nel 1906, visse in modo duplice il dramma delle due guerre mondiali: la sua famiglia era di origini ebree, e per questo subì persecuzioni nei suoi confronti fin dalla tenera età. Pochi anni dopo il primo conflitto mondiale si trasferì con la sua famiglia negli Stati Uniti, ma nonostante la lontananza dall’Europa anche la Seconda Guerra Mondiale non lo risparmiò: arruolatosi nell’esercito, sbarcò in Sicilia e successivamente in Giappone. Non smise mai di condurre studi e ricerche nel suo laboratorio da campo. Fu in questo periodo che perse le sue due nipotine, Amy e Deborah, per mano delle SS. Mentre si trovava a Berlino, nel 1947, assisté al dilagare di una gravissima epidemia di poliomielite tra i bambini della capitale tedesca devastata dal conflitto. Questa malattia provoca nei bambini l’atrofizzazione dei muscoli, deformità nella crescita, e spesso conduce alla morte.
Di ritorno in America, Sabin continuò i suoi studi sulla poliomielite. Già nel 1939 aveva scoperto che, contrariamente a quanto pensato in precedenza, le origini di questa terribile patologia virale non risiedono nell’apparato respiratorio, ma nell’intestino. Questa informazione che collocava in modo esatto la sede di sviluppo dell’infezione fu cruciale per i successivi passi avanti.
Precedenti tentativi di trovare un vaccino per la poliomielite (polio) ad opera di altri ricercatori si erano rivelati poco fruttuosi, o addirittura disastrosi. Si dotò di un vasto laboratorio in cui condurre esperimenti, e, nei primi anni ’50, insieme ad altre università americane portò avanti gli studi su questa malattia e le ricerche del relativo vaccino.
Dopo una lunga serie di impegnative investigazioni, riuscì nel suo intento: isolare in una soluzione i virus indeboliti della polio, la chiave di volta per realizzare il vaccino. Pensate che lo testò per primo su sé stesso, poi su alcuni colleghi che si offrirono volontari. Alla notizia di questo iniziale successo, nelle carceri americane moltissimi detenuti si proposero spontaneamente per provare il vaccino. Tutto indicava che funzionasse a dovere, senza effetti collaterali.
Una volta che il vaccino venne ritenuto sicuro, si passò a testarlo sui bambini: il suo successo venne definitivamente sancito. Il siero messo a punto da Sabin non richiedeva nemmeno un’iniezione: veniva somministrato disciolto su una zolletta di zucchero. Dopo alcuni iniziali attriti con altri membri della comunità scientifica, il vaccino contro la polio iniziò a prendere piede in tutto il mondo. In pochi anni milioni di bambini vennero vaccinati, e i casi di poliomielite calarono drasticamente.
In tutto ciò, Sabin non brevettò mai la sua scoperta. Avrebbe potuto guadagnare milioni, ma preferì mettere a disposizione dell’umanità intera il frutto del suo lavoro, costato anni di grandi fatiche e una vita passata in laboratorio.
Abbiamo solo scalfito la vita e le opere di questi tre grandi personaggi: su ciascuno di essi sono stati scritti libri su libri. Però da tutti e tre possiamo trarre una lezione comune. Quando il sapere e l’intelligenza si uniscono alla potenza del metodo scientifico e all’energia di un animo instancabile, qualsiasi problema, morbo o epidemia può essere sconfitto. Dobbiamo ricordarcelo e tenerlo presente: forse tra qualche decennio saremo chiamati noi come testimoni dei fatti straordinari che stiamo vivendo. Allora dovremo onorare la memoria di coloro che in questi giorni difficili hanno combattuto in prima linea contro il coronavirus: infermiere, medici, tecnici di laboratorio, ricercatori, volontari. E non smettete mai di informarvi, di studiare, leggere e imparare: la conoscenza e la memoria sono le uniche luci che possiamo sempre accendere dentro di noi qualunque sia l’entità delle tenebre che ci circondano. Ricordate il significato latino di virus, veleno. Perché non c’è peggior veleno dell’ignoranza.
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