La scuola ai tempi del covid-19: fermarsi, osservarsi, ri-progettarsi
Si potrebbero scrivere molte cose su questo periodo particolare che stiamo vivendo tutti.
Sono mesi che lasceranno un segno in ognuno di noi e che daranno materiale su cui scrivere tesi e teorie a storici, sociologi, antropologi e psicologi, oltre che – prima di tutto – a medici.
Ma quello di cui vi parliamo oggi non tratta nello specifico notizie e scoperte riguardo al virus, né tantomeno vuole essere un’analisi di come le masse stiano reagendo di fronte alle misure di sicurezza.
Quello su cui vogliamo riflettere, infatti, è uno dei numerosi effetti collaterali di tutta questa situazione: la didattica a distanza.
Da settimane, ormai, il mondo della scuola e dell’Università va avanti come può, aggrappandosi a quell’innovazione tanto temuta e criticata nell’ultimo decennio, pur di non lasciare “indietro” nessuno. Lezioni svolte attraverso videochiamate di gruppo, interrogazioni attraverso singoli colloqui su Skype e altre applicazioni; lauree avvenute addirittura su Whatsapp. Probabilmente se avessimo presentato la proposta di una didattica simile due mesi fa, in qualsiasi Consiglio di Classe, genitori e insegnanti avrebbero riso di fronte a tale follia. Eppure, in una situazione di emergenza, studenti e soprattutto docenti, hanno dovuto reinventarsi e modificare tutto ciò che conoscevano della scuola.
Quando parliamo di Scuola, infatti, dobbiamo considerarla come un intreccio di elementi materiali, concreti, che agiscono su menti e corpi. L’educazione passa attraverso la materialità e non può prescindere da essa. Gli elementi che scegliamo, insieme ai luoghi e ai metodi, sono parte del processo educativo stesso. Il modello della classe con banchi posti in fila, della cattedra di fronte a tutti – posizionata come il posto di guardia di un panopticon– della lavagna – simbolo del sapere – posizionata dietro la cattedra, in quanto il sapere è posseduto dal potere – sono tutti elementi materiali che dispongono i corpi in un determinato modo e imprimono un messaggio nelle menti degli studenti.
Questo modello risultava già superato e in crisi vent’anni fa, come testimoniano molti testi della letteratura accademica che non fanno che parlare di una scuola in crisi, incapace di far fronte ai problemi della contemporaneità e di competere con quella che è un’educazione informale più diffusa – attraverso media e social media.
Eppure, nonostante l’evidenza, la scuola ha introdotto molto lentamente e quasi timorosamente qualche timida innovazione come registri elettronici e proiettori; ha cercato di diventare più inclusiva – di adattarsi cioè ai bisogni educativi speciali di ogni genere degli studenti – attraverso l’utilizzo di lavagne lim, di libri di testo parzialmente o totalmente scaricabili, di strumenti come pc e tablet per intere classi o per studenti con necessità specifiche.
Purtroppo però, tutte queste nuove risorse, imposte per lo più dall’alto – da leggi che cercavano di tenere il nostro sistema scolastico al passo con altri Paesi – non solo sono state guardate con diffidenza dalla maggior parte degli insegnanti, convinti della necessità di mantenere la tradizione per ottenere un certo rigore nell’educazione, ma soprattutto non hanno portato cambiamenti riconoscibili a livello di metodo.
La lim, nella maggior parte dei casi, viene utilizzata come una normale lavagna, senza sfruttarne nemmeno la metà delle funzioni. Le lezioni si svolgono nello stesso modo di sempre, solo con strumenti diversi.
La scuola si trascina identica a sé stessa senza avere il coraggio di cambiare, di mettersi in gioco.
Fino ad ora.
Davanti a questa emergenza, che ha previsto la sospensione dell’attività didattica negli edifici pubblici per mesi, la Scuola si è ritrovata a un bivio: arrendersi o decidersi a cambiare.
Il primo caso, avrebbe comportato la totale sospensione delle lezioni e probabilmente – di conseguenza – l’annullamento dell’anno scolastico agli studenti; avrebbe voluto dire essere sconfitta dall’educazione informale – dalla tecnologia, da internet, dai media – che in questo periodo di pausa avrebbe educato gli alunni più di quanto potesse fare Lei.
Fortunatamente, è stata la seconda scelta ad avere la meglio.
Stiamo così osservando, lentamente, docenti e studenti che si abituano a una materialità diversa, casalinga. I banchi, stretti, scomodi, impersonali, sono stati sostituiti dalle proprie scrivanie, dal tavolo della cucina o semplicemente dalle proprie gambe, a seconda di quello che ciascuno ritiene più comodo e utile. Il divano, le poltrone, le sedie di casa – a volte girevoli ed ergonomiche – hanno preso il posto di quelle delle aule scolastiche.
Ma non pensiate che si tratti solo di una questione di comodità. Come abbiamo detto, la materialità ha a che fare con il sapere, ma anche con il potere. Se la classe è un luogo in cui prima di tutto so cosa non posso fare, a casa mia posso fare più o meno quello che mi va, perché è un luogo che mi appartiene.
Fa sorridere pensare a quelle frasi come: “A casa tua metti i piedi sul tavolo?”, io stessa, mentre sto scrivendo, ho il tablet sulle cosce e i piedi posati sul mio tavolino. Chissà tra le migliaia di studenti che stanno facendo lezione online in questi mesi, quanti stanno godendo della possibilità di muovere il proprio corpo come più sono comodi per ascoltare la lezione. E quanti invece, liberati dallo sguardo dell’insegnante, che sta aldilà dello schermo, riescono a mangiare, messaggiare e scarabocchiare, senza che nessuno debba interromperli.
Ho visto un post condiviso da alcune insegnanti, che ironicamente, riferendosi alle lezioni online, diceva: “No, Marco, non devi chiedermi se puoi andare in bagno a casa tua”. Ma perché ci sembra così assurdo che un bambino chieda di poter andare in bagno a espletare bisogni fisiologici a casa sua, quando se si trova in classe è obbligato a farlo per non prendere una nota?
Non dovrebbe essere un suo diritto andare in bagno quando ne ha bisogno, a prescindere dal luogo in cui sta facendo lezione?
La Scuola sta affrontando la sua più grande paura allontanandosi dalle sue aule – luoghi del suo potere in quanto luoghi di suo possesso. Infiltrandosi come un’ospite timoroso nelle case degli alunni, la scuola sta provando cosa significhi educare senza quel potere. Sta provando ad essere una scuola più democratica, in cui al centro c’è davvero lo studente, a casa sua, nel suo mondo, con le sue comodità.
Una scuola che si allea a internet e tecnologia, che considerava nemici da sempre. Una scuola che deve basare la sua didattica sulla capacità di coinvolgere e interessare, non sul potere di sanzionare – perché senza panopticon risulta difficile vedere quanto gli studenti siano attenti. Una scuola che però deve anche trovare una soluzione per l’inclusione di coloro che non hanno mezzi a sufficienza per seguire le lezioni online.
Non pensiate che questa Scuola sia quella che vogliamo. Perché manca di tutta la fisicità necessaria all’educazione, fatta di sguardi complici e gesti visibili e ci auguriamo che questa dimensione possa tornare a far parte della quotidianità. Ma questa Scuola, finalmente, si pone domande, si ferma a riflettere e a riprogettare.
Articolo di Giada Taribelli
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