Un aeroplanino sul soffitto e templi a Bangkok
Mi sdraio sul letto e guardo il soffitto.
Ho ancora il lampadario di quando ero bambina: è un aeroplanino di legno ad eliche, blu e verde. Mia mamma mi ha chiesto tante volte di cambiarlo, ma io non ho mai voluto. Ho cambiato tante cose, ma quell’aeroplanino attaccato al soffitto mi tiene legata alla mia infanzia e alla mia voglia di volare.
In questo momento difficile per tutti, volevo fare questa premessa prima di farvi sognare parlando di una terra che ho nel cuore, la Thailandia. Anche se siamo a casa (e ricordiamoci che siamo a casa per il bene di tutti) possiamo rimanere legati ai nostri sogni, e continuare a viaggiare. Con la mente.
Quando sono atterrata a Bangkok, il 17 agosto 2018, ero stanca per il viaggio, rintontita per il fuso orario, preoccupata per il cibo asiatico ma felice. Ero nel posto giusto, ero dove dovevo essere in quel momento. Avete mai provato questa sensazione? Non mi capita sempre di sentirmi allineata con ciò che mi circonda, ma quando viaggio – e quando scrivo – mi capita più spesso. E Bangkok, per me, rappresenta un’ancora salda a cui appoggiarmi, un ricordo che illumina tanti significati.
Siamo atterrati di mattina (io e miei compagni di viaggio, quasi tutti estranei con cui ho imparato a condividere le emozioni più belle) abbiamo preso il trasferimento per l’hotel, lasciato le valigie nelle nostre stanze, aspettato a bordo piscina che tutti fossero pronti e abbiamo cominciato a camminare per Khao San Road mentre l’umidità e le nuvole chiare ci davano il benvenuto nel sudest asiatico. I tuktuk corrono tra le vie, i localini si preparano per accogliere i turisti per il pranzo, le bancarelle di strada vendono di tutto mentre i proprietari ti salutano con un sorriso – Sawadeekap! – C’è una frenesia quieta, in questa Bangkok di mezzogiorno. Ci siamo fiondati in un ristorante da strada, in una via tranquilla poco distante dal centro. Panche e tavolini sotto un gazebo, enormi padelle sul fuoco, l’incertezza nei nostri volti. Cosa mangiamo? Pad thai per tutti, ed è stato colpo di fulmine tanto che, ora, sento la mancanza di quei sapori ogni giorno, e li sogno da lontano.
Quello che ti racconta una città come Bangkok è una storia che racchiude tutti i generi letterari, e le sue parole cambiano stile a ogni nuova pagina.
Quattro giorni in questa metropoli sono un fugace incontro: un primo appuntamento che ti confonde, ma da cui esci innamorata, eternamente attratta dai momenti trascorsi tra i templi buddhisti e i mercatini notturni.
Il Wat Pho è stato il primo tempio che abbiamo visitato: ginocchia e spalle coperte, si cammina tra i chedi, i monumenti buddisti che si innalzano verso il cielo sempre più sottili, e i giganti di pietra che proteggono le porte. C’è anche Marco Polo, tra questi protettori, e centinaia di creature affascinanti, mentre gatti randagi si godono il relax sotto gli alberi e i monaci dalle tuniche arancioni camminano calmi tra un edificio e l’altro.
Il Wat Pho è famoso per il Buddha reclinato: una statua gigantesca (46 metri in lunghezza), un buddha d’oro sdraiato che occupa tutto il tempio. È una di quelle cose che non si possono nemmeno tentare di fotografare, tanto sono imponenti. Non renderebbe l’idea: essere lì a vederlo con i propri occhi e a sentire il ticchettio delle monetine che cadono nelle ciotole come segno di buon auspicio è troppo di più rispetto a quello che posso raccontare.
A Wat Pho ci sono tante cose che ti lasciano senza parole. I tetti dorati dei templi, i chedi decorati, l’atmosfera rilassata, i gatti che si addormentano ai piedi delle statue. E poi ci sono loro, i guardiani di pietra, protettori delle porte, creature della mitologia buddhista. A Wat Pho si trova il Buddha sdraiato: nessuna foto può valere l’emozione che si prova quando, a piedi scalzi, si oltrepassa il portone del wi hahn – il santuario -. Sembra davvero di incontrare l’immensità.
Ma la vera magia del Wat Pho l’abbiamo vissuta di notte, quando le porte degli edifici vengono chiuse ma si può passeggiare tra i suoi chedi, i suoi gatti e le sue statue, nel silenzio incredibile delle serate thailandesi, che parlano e cantano altrove. Un’atmosfera surreale e sospesa che vorrei rivivere e assaporare, e che per ora ripercorro prima di andare a dormire, per sentirmi lontana nello spazio ma vicina a una parte di me.
Insomma. Volevo parlare della Thailandia e ho parlato solo di Bangkok. Volevo parlare di Bangkok e ho parlato solo di un piatto esotico mangiato sulla strada e di un tempio illuminato a notte.
Perché le parole continuano a scorrere sotto l’influsso di questa città, e forse potrei parlarvene per ore. E lo farò, perché non c’è niente al mondo che mi appartenga di più di questi racconti intrisi di luoghi lontani.
Templi dorati di Bangkok che ritornano in mente: dettagli che si rincorrono all’infinito sulle pareti decorate, statue di demoni o divinità, l’afa di una giornata d’agosto. Togliersi le scarpe era un gesto semplice, dovuto e fascinosamente esotico. Camminare a piedi scalzi tra i Buddha di pietre preziose e gli incensi profumati mi faceva sentire partecipe, immersa, pienamente a contatto con il reale che mi circondava e quasi sospesa nel sovrareale che i templi celano tra le preghiere. Il caldo appiccicava i vestiti sul corpo, i piedi toccavano il pavimento, gli occhi si perdevano.
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