L’importanza delle distanze
Nell’industria dei videogiochi, ormai da molti anni uno dei mantra più ripetuti e diffusi è quello della ricerca ossessiva dell’Open World.
Ora, senza entrare nei dettagli della definizione di Open World, praticamente tutti ormai sono coscienti del fatto che per esso si intende sostanzialmente una costruzione del mondo di gioco aperta e liberamente esplorabile, nella quale il giocatore può andare a zonzo come gli pare e decidere per sé la strada da seguire per arrivare dal punto A al punto B.
Dunque l’open world è oggi il contesto principale nel quale i giocatori si muovono e viaggiano all’interno dei mondi che vengono loro proposti dagli sviluppatori. E’ in un mondo virtuale e aperto che spesso si consumano dunque i viaggi delle persone – più nei videogiochi ormai che nella vita reale, visto che è eccezionalmente raro trovare qualcuno che si faccia chilometri e chilometri a piedi per arrivare da qualche parte.
Infatti, la volontà di ridurre al minimo il tempo di viaggio è un desiderio probabilmente connaturato dell’essere umano, ed il progresso tecnologico nel corso dei millenni ha continuamente spinto verso quella direzione, a partire dal cavallo sino agli aeroplani. Lo stesso in qualche modo si può dire dei videogiochi.
D’altra parte, il viaggio, inteso come lo spostamento da un punto all’altro, è spesso visto come un’esperienza noiosa e inutile, una perdita di tempo che sarebbe meglio se non ci fosse. E non è un caso che il teletrasporto sia una delle invenzioni più ambite da parte di chiunque: sarebbe stupendo poter, in un attimo, arrivare dalle nostre case a qualsiasi posto bypassando tutto quello che c’è nel mezzo.
Sicché, gli sviluppatori dei videogiochi hanno spesso preso le mosse da questo desiderio: nel mondo virtuale non esistono le limitazioni del mondo reale, e si può decidere di fare come si vuole. Il tedio del viaggio, nel corso degli anni, è stato nei videogiochi limitato il più possibile, principalmente attraverso il meccanismo del cosiddetto fast travel: un sistema in cui il giocatore più, di fatto, teletrasportarsi da un punto all’altro e non subire più questa insopportabile noia. Per molti utenti, questo è stato un grande progresso, una comodità che permetteva loro di accendere il videogioco e calarsi subito nell’azione, proprio come un cittadino comune sogna di poter arrivare in un battito di ciglia sull’isola tropicale dove godersi una bella vacanza.
Il problema di una tale concezione, però, sta nel fatto che il mondo reale non è certo uguale ai mondi che vengono proposti nei videogiochi, ed il viaggio non ha, e non deve avere, la stessa valenza.
Nella sua idea fondamentale, il videogioco è prima di tutto un’esperienza che cattura il giocatore e lo immedesima in un contesto. Questo contesto, se verosimile e ben fatto, è un mondo in sé e per sé, creato e plasmato dagli sviluppatori in modo funzionale al gameplay del gioco.
Questo significa che, con ogni probabilità, il mondo virtuale avrà una qualche sorta di insidia da superare: magari dei predoni, delle bestie selvagge, dei draghi che piombano immediatamente dall’alto sui poveri viaggiatori, o addirittura, in multiplayer, altri giocatori malintenzionati. Da ciò deriverebbe, almeno in teoria, una sorta di rischio nel viaggio: un qualcosa che, per fortuna, nel mondo reale invece si rifugge.
Il problema sta qui proprio nel fatto che il videogioco non è la realtà e il viaggio nel mondo virtuale non è il viaggio nel mondo reale. L’idea di accontentare quella parte di giocatori che vive gli spostamenti virtuali con la stessa noia con cui vive quelli reali ha spesso ucciso tutto il valore di un mondo virtuale ben costruito e appagante. A che serve spendere tempo nell’aggiungere dettagli all’open world se poi in buona parte questo verrà saltato a piè pari, fruendo del sistema di teletrasporto?
E non si tratta soltanto di grafica: anche il gameplay è fortemente castrato da una concezione del genere. In nessun prodotto in cui il mondo virtuale sia annullabile attraverso il teletrasporto può esistere una componente di esplorazione e di scoperta (se non minima) ed un sistema di economia e commercio realistica. Nel mondo del teletrasporto, anche le merci arrivano istantaneamente a destinazione, e non esiste perciò alcun tipo di economia locale. I prezzi sono uguali dappertutto, perché la difficoltà di reperimento delle merci è la stessa ovunque. Non ci sono briganti, né predoni, né commercianti, né guardie in giro per le strade (se non per pura figura estetica), o altri viaggiatori che insieme percorrono le stesse vie.
E se questo è già visibile nei giochi single-player, come il notissimo Skyrim, negli MMO e nei giochi online in generale il fatto che le distanze non contino più e vengano annullate da sistemi di teletrasporto è semplicemente deleterio per la grandezza e la complessità dell’opera.
Se non esistono commercianti e briganti, se non esiste un incentivo all’esplorazione, nessuna figura è impersonabile dal giocatore, che diventa di fatto un superuomo che solitamente non fa altro che lottare qua e là per la mappa di gioco, teletrasportandosi da un combattimento all’altro. Ma se la grande maggioranza dei giocatori si comporta così, a questo punto che valore ha l’open world e la realizzazione certosina di un mondo virtuale? Quasi nessuna: economicamente, non è mai conveniente aggiungere elementi che solo una ristretta minoranza vedrà.
Questo annullamento dell’importanza del viaggio e la sempre maggiore idea di dover comprimere le distanze sono due concezioni che si mostrano in tutta la loro pochezza ancora di più quando si confrontano con esempi coraggiosi che non hanno seguito la massa e hanno mantenuto l’obbligatorietà degli spostamenti. Si pensi, ad esempio, ad Eve Online, titolo estremamente complesso nel quale i giocatori hanno messo su intere corporazioni di logistica per occuparsi del trasporto di merci e della scorta ai giocatori, come se qualcuno avesse creato Amazon, DHL e SecurItalia contemporaneamente dentro un videogioco. E costoro vengono pagati per il loro servizio, nell’ambito di un’economia locale con valori diversi a seconda dei luoghi, e dove le distanze tra avamposti contano veramente. Oppure si pensi a Sea of Thieves, titolo decisamente più casual nell’anima, che però mantiene quest’idea di spostamento rischioso, durante il quale il giocatore è incentivato a fare attenzione e a guardarsi attorno: a stare, insomma, all’erta, e ad imparare a navigare veramente il mondo virtuale, conoscendone le strade e le peculiarità.
È questo il valore di un mondo virtuale ben fatto. Laddove invece si ammette il fast travel ed impera il teletrasporto, la chimera dell’Open World e delle moderne concezioni di mondo virtuale si mostra in tutta la sua insignificanza. A questo punto, sarebbe stato meglio proporre un videogioco con sezioni lineari ed obbligate, costringendo perciò il giocatore a vedere ogni singola ambientazione ed ogni dettaglio che gli sviluppatori hanno creato, visto che tanto il mondo virtuale non diventa altro che un mero contesto dalla valenza piuttosto limitata.
Articolo di Giacomo Conti, MMO.it
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