Bowie: le sei vite e mezzo del Duca Bianco
C’è una storia rannicchiata tra le pieghe della straordinaria carriera di David Bowie. Una storia tutt’altro che invisibile e che a dispetto della scomparsa dell’artista, ha avuto uno di quei lieti fine di cui mi piace tanto parlare in questa rubrica.
La storia delle sue diversità.
Per evitare fraintendimenti, mettiamo subito in chiaro una cosa.
Non sono il maggiore esperto di Bowie in circolazione e neppure uno storico musicale.
Tuttavia, come milioni di altre persone, ho amato la sua musica, l’ecclettico anticonformismo e quello sguardo bicolore che sembrava capace di attraversare il tempo e le distanze scrutandomi beffardo da uno schermo in 4:3 (non avevamo altro negli anni ‘80).
Quindi, ecco qui un personale, genuino pensiero senza fronzoli e pretese da esperto.
Innanzitutto sappiate che venni a sapere del Duca Bianco per la prima volta nel 1984. Erano appena iniziate le riprese sperimentali di quella che in seguito sarebbe diventata Video Music, nata ufficialmente in una notte di aprile dello stesso anno. Questa storica emittente televisiva trasmetteva 24 ore su 24, dalla provincia di Lucca, programmi, video clip e ogni altra cosa inerente al mondo musicale. Il primo video di Bowie che vidi fu quello per il brano “Loving the Alien”. Fu come ricevere un ceffone sulla testa: non particolarmente doloroso ma totalmente inaspettato.
Sebbene Bowie fosse già in carriera da oltre quindici anni, il panorama musicale inglese ci appariva lontano quanto il pianeta rosso. Se negli anni ’70 avevi un fratello (o un cugino) più grande appassionato di musica, allora poteva darsi che tra le tue prime reminiscenze musicali ci fossero anche Bowie, appunto. O magari i Pink Floyd, i Police o i Queen, giusto per citarne alcuni. Altrimenti dovevi accontentarti dei Beatles e Nilla Pizzi (da non mischiare mai, mi raccomando).
In buona sostanza, quelli della mia generazione avrebbero saputo di Bowie e decine di altri artisti, negli anni ’80. Grazie soprattutto al canale con la M verde.
Video Music, di fatto, divenne un portale ad accesso casuale sulla musica d’oltre oceano e anche di più. Ad esempio la data di apertura per il Glass Spider Tour di Bowie, il 9 Giugno 1987 a Firenze, fu ripresa dal vivo dall’emittente che poi ne fece diversi servizi dipanando alcune delle numerose storie dentro la storia dell’artista. Vedendo quei servizi venni a conoscenza delle pazzesche vite di Bowie. Emergevano una dopo l’altra, demolendo quelle precedenti in una sorta di complesso rito che si lasciava alle spalle le esistenze che aveva vissuto.
L’apertura del Glass Spider, ad esempio, riprendeva e amplificava il suo ingresso sul sedile areo-spaziale e cornetta telefonica all’orecchio già visto nel tour di Diamond Dogs del 1974, ma in un formato adattato per una macchina teatrale molto più imponente e spettacolare. Un richiamo a ciò che era stato, prima di proiettarsi verso quello che sarebbe divenuto in seguito.
L’esempio più noto è dato dalla linea di demarcazione tra Ziggy Stardust e David Bowie che si assottigliò al punto che Ziggy dismise i panni di semplice personaggio, persuadendo il cantante d’essere davvero un messia. Spaventato da questa presa di coscienza, nell’estate del 1973 Bowie/Ziggy dichiarerà al mondo che quella sarebbe stata l’ultima esibizione dell’alieno.
Da Ziggy Stardust ad Alladin Sane, le vite di Bowie saranno anche quelle del Maggiore Tom e di Hallowen Jack. Quella con cui viene più spesso ricordato appartiene all’aristocratico Thin White Duke per arrivare a Nathan Adler.
L’ultima vita, quella rimasta a metà, la possiamo solo immaginare.
Pensando a tutto questo davanti ai miei occhi si dipana con lentezza una constatazione semplice ed illuminante.
David Bowie è stato “la” diversità.
Egli liberò l’androginia, sganciandola come una bomba in mezzo a una società maschilista, vestì i panni di un alieno capace di amare il prossimo senza distinzioni di genere. Re indiscusso del glam-rock, di seguito concentrò le sue esibizioni in un duca pazzo e decadente che si esibiva con il solo ausilio di una luce proiettata sulla propria figura pallida.
Non si può misurare l’impatto sociale che ha avuto, ma un impatto c’è stato eccome.
Il pubblico, così enormemente eterogeneo che ha catturato, si è in qualche modo riconosciuto nei suoi personaggi. Si è trasformato e occasionalmente ha perfino cambiato tendenze pur di continuare a seguirlo nelle sue metamorfosi.
Questo ha fatto di David Bowie, secondo il mio modesto parere, l’unico artista al mondo che sia mai stato capace di conquistare le persone a prescindere dal loro credo e orientamento.
Magari non proprio il messia che per un breve tempo aveva creduto di essere, ma le sue diversità hanno aperto porte su altri universi, spalancato occhi e cantato al mondo con la forza di un indomabile estro che sì, è vero; siamo tutti alieni in un mondo di alieni.
Siamo tutti diversi.
Siamo tutti unici.
Siamo.
Il che in fondo, è tutto quello che ci serve.
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