Il gusto della complessità difficile

Reveal more

Il gusto della complessità difficile

La società di oggi è basata sulla gratificazione istantanea e sull’appiattimento delle barriere, nel tentativo, anche lodevole, di egualizzare tutti e di assottigliare le differenze, ma anche, collateralmente, le prerogative.

Lontani sono i tempi dei contenuti elitari: nel cinema, nella musica, nei videogiochi e nella letteratura si assiste sempre più al tentativo di raggiungere un livello medio, riducendo la complessità e semplificando la difficoltà, in nome del grande concetto che nutre il mercato consumistico: l’Accessibilità.

Se un prodotto non è Accessibile, la sua fruizione è limitata, dunque le sue vendite saranno ridotte rispetto al prodotto che fa leva sulla media. Viene pertanto da sé come il concetto di accessibilità sia oggi seguito ed anelato da chiunque abbia un prodotto da rivolgere al grande pubblico.

Fare leva sulla media d’altronde è molto comodo, perché anzitutto elimina le barriere d’ingresso e mette al riparo dalle critiche. Chi dispone di un’opera accessibile si trova sempre bene durante la fruizione di essa: se fa parte di un pubblico elevato, si sente bene con se stesso criticandone la semplicità dall’alto della sua competenza, ed aumentando in tale modo il suo ego. Se fa parte di un pubblico casuale, meno interessato e meno capace, non patirà la sua inferiorità né sarà desideroso di superarla, perché il prodotto è tarato anche e soprattutto per lui: per permettergli di goderne così com’è ora, immediatamente e senza sforzi.

Malgrado questa tendenza si veda un po’ in tutti i medium dell’oggi, nei videogiochi essa è stata la causa primaria della loro ampia diffusione, come mai lo era stato prima, ma al prezzo dell’esperienza di ognuno, e della rinuncia a generi e situazioni complesse. E’ stato quindi un cambiamento positivo in termini economici, perché ha permesso di vendere a chiunque qualsiasi cosa, ma ha anche anestetizzato l’abilità, il ragionamento ed in definitiva la capacità critica di ognuno. 

Il videogioco, infatti, ha una peculiarità fondamentale: è interattivo. Perché l’opera sia fruita è richiesto un intervento attivo del fruitore, che si deve più o meno impegnare. Senza l’intervento del giocatore il videogioco non prosegue. Non è come col cinema, dove anche andando in bagno il film va avanti. Non è come nei libri, dove non è richiesta alcuna interazione se non lo scorrere degli occhi. Non è come nella musica, né come nell’arte figurativa, dove è sufficiente l’ascolto o la vista.

Dunque il videogiocatore più di ogni altro è collegato alla fruizione dell’opera dal metodo attraverso il quale la fruisce. Mai come nel videogioco si può notare una diversità di godimento tra chi ha maggiore o minore esperienza: le esperienze di gioco sono personalissime, e diversissime in base all’abilità di ognuno.

Il divertimento, poi, tende ad aumentare all’aumento dell’abilità, specie nelle varianti multigiocatore. Del resto, anche nello sport non piace a nessuno farsi prendere a pallonate senza poterci fare alcunché: perché il giocatore si diverta, deve essere almeno un minimo bravo in ciò che sta facendo. E perché il gioco possa divertire davvero, deve mettere il giocatore nella condizione di migliorarsi e di godere del suo progresso.

In alternativa, si sta scimmiottando un brutto film od un brutto libro: un’opera che non tiene conto delle peculiarità del medium e che non ha alcuna funzione di miglioramento del fruitore, ma solo di arricchimento dei suoi creatori.

In secondo luogo, il problema della gratificazione istantanea e del livellamento verso il basso della difficoltà e della complessità causa un appiattimento anche dell’importanza delle cose. Se tutti, di fatto, possono avere tutto e a nessuno è richiesto “quel qualcosa in più” per poter fruire di un’opera nel suo complesso, allora anche l’opera non conterà nulla. Non vi sarà alcun valore a giocare bene, nessun valore a voler superare i propri limiti. Non ci sarà incentivo a migliorare la propria abilità né a sviluppare la propria coscienziosità, perché il panorama è piatto e non è necessario alzarsi per vedere l’orizzonte: esso è palese davanti agli occhi, scevro di montagne, scevro di ostacoli ed anche di dettagli, in un deserto tutto uguale privo di peculiarità. In questo mondo, proprio come nel campo di addestramento del Sergente Maggiore Hartman, “vige l’eguaglianza”, ma non perché i fruitori partono da condizioni uguali e giungono ognuno alle proprie conclusioni, ma perché “non conta un cazzo nessuno”, e l’opera non ha nulla da dire.

Perché un’opera sia memorabile e sensata, è necessario che abbia una sua complessità. Deve contenere ostacoli, in senso figurato, che debbono essere superati dal fruitore per renderlo migliore di quando era partito e per dare vero valore all’opera stessa. Nei videogiochi, poi, visto l’intimo collegamento tra fruitore e fruizione che solo l’interattività può dare, questo concetto è ancora più forte che altrove.

Articolo di Giacomo Conti, per MMO.it

Lascia un commento

Previous post 3 Domande a Cassandra Calin: Uno stereotipo in meno
Next post Krampus di Natale