Atlete per scelta

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Atlete per scelta

C’è una bambina che vuole giocare a calcio, ma non le è consentito perché “è uno sport da maschi”. C’è una ragazza che vuole boxare, ma non le è permesso perché “è uno sport violento”. C’è una donna che vuole sollevare un bilanciere, ma non le dicono che non può perché “tanto non ce la fa”. Quante volte vi siete sentite dire queste frasi? Quante volte vi siete sentite messe da parte perché “femmine”?

Se dite quello che pensate siete isteriche, se fate quello che altr* non hanno il coraggio di fare siete disobbedienti, se andate contro corrente siete quelle psicopatiche. Ma che ne è della vostra natura? Della voglia di rompere gli schemi? O di fare tutto ciò che vi piace?

Ebbene, siamo una società che, pur avendo fatto mille progressi, vive ancora nella discriminazione, vive ancora nell’idea che la donna, per essere tale, debba essere madre e casalinga. Viviamo in un mondo in cui una donna che pratica uno sport è pagata meno ed è screditata perché non lo fa “come i maschi”, ma al tempo stesso non le vengono dati gli strumenti per farlo come loro.

Tanti passi avanti sono stati fatti, è vero, ma tantissimi altri sono ancora da percorrere. La manifestazione delle Olimpiadi di Londra 2012 è stata la prima in assoluto a portare un numero uguale di sport per donne e uomini. Per la prima volta nella storia, ogni Nazione ha portato nel proprio team almeno una donna.
Come siamo arrivati fin qui?

Nell’antica Grecia, nonostante la pratica sportiva per una donna fosse scoraggiata, esisteva una competizione esclusivamente femminile simile alle Olimpiadi: i Giochi Erei, in onore di Era. A nessuna donna era permesso assistere o partecipare ai Giochi Olimpici, pena l’essere gettata dal monte Typaion. Eccezion fatta per le spartane, formate allo sport allo stesso modo dei ragazzi, per poter dare alla luce figli forti e valorosi come i loro genitori. La prima donna inserita nell’albo delle Olimpiadi è spartana, figlia del re Archidamo: si chiamava Cinisca e vinse per ben due volte consecutive la corsa coi carri alle Olimpiadi nel 396 a.C. e nel 392 a.C.. I romani continuarono la tradizione dei Giochi, ma rendendoli sempre più violenti e sempre meno accessibili alle donne. Con l’avvento del cristianesimo vennero aboliti perché considerati barbari ed è da qui che le donne persero quella poca parità che avevano fino ad allora conquistato.

Fu solo dal 1800 in poi che l’attività fisica femminile venne reintrodotta nell’ambiente aristocratico, quando cominciarono ad essere praticati giochi in movimento: il più diffuso fra tutti fu il Badminton, proveniente dalle corti inglesi e poi francesi. È proprio in Francia che nel 1894 si ebbe l’idea di reintrodurre i Giochi Olimpici, il 23 giugno dello stesso anno nacque quindi il CIO (Comité International Olympique) fortemente voluto dal barone Pierre de Coubertin, dirigente sportivo, pedagogista e storico francese che vide nello sport un’occasione per promuovere la pace e la collaborazione fra le Nazioni del mondo. Da allora vennero istituite le Olimpiadi moderne, che ancora oggi seguiamo ogni quattro anni.

Inizialmente il ruolo della donna, secondo lo stesso Coubertin, doveva essere solamente quello di incoronare i vincitori, infatti, sempre per il suo pensiero: “Una Olimpiade femmina sarebbe non pratica, non interessante, antiestetica e non corretta”.

Alcune donne iniziarono a ribellarsi all’esclusione dalle competizioni: nelle Olimpiadi di Atene del 1896 (la prima edizione moderna) Stamàta Revithi provò ad iscriversi alla maratona, quando non ci riuscì non si diede per vinta: partecipò ugualmente venendo fermata prima della conclusione della gara. Alle Olimpiadi di Londra del 1908 venne concesso alle donne di partecipare alle gare di tiro con l’arco. A quelle di Stoccolma del 1912 vennero ammesse atlete femminili nelle competizioni di ginnastica e nuoto, con grande disapprovazione di Coubertin; enorme fu lo scandalo per i costumi utilizzati (oddio una caviglia nuda!). Nel 1921 Alice Milliat fondò la F.S.F.I. (federazione sportiva femminile internazionale) e organizzò i Giochi Olimpici Femminili, per protesta contro quelli “ordinari”, svoltisi a Parigi nel 1922 con un ampio successo. Il clamore di questo evento fu tale che il CIO decise di aprire più categorie olimpioniche alle donne per non perdere visibilità: nell’edizione di Amsterdam del 1928, ben 278 atlete presero parte alla competizione.

Inizialmente quindi la diffusione dello sport a livello femminile prediligeva la donna come essere aggraziato e fragile, aprendo le competizioni soprattutto in categorie che valorizzavano questi aspetti, ecco la nascita di sport “adatti” a quella che era l’immagine comune della donna di madre e casalinga. I dibattiti per ammettere donne nell’ambito sportivo nascono proprio dall’aspro conflitto che vedeva in questo il capovolgimento dell’ordine sociale e una minaccia alla moralità del Paese.

Una lotta dietro l’altra ha fatto sì che le ragazze di oggi possano scegliere di diventare ciò che più a loro aggrada: atlete, madri, scienziate, dottoresse e altre mille figure. Ma la lotta non è finita, ancora oggi la donna anche solo come atleta è giudicata dall’aspetto fisico o dalla sua vita privata. Basti pensare ad una cosa: l’articolo uscito (e rimosso poco dopo) in merito alle ultime Olimpiadi in cui il team femminile di tiro con l’arco italiano è stato chiamato “il trio delle cicciottelle”. Una frase che di banale non ha nulla, ma che di giudizio ha tutto. Come può una persona essere giudicata per la sua forma fisica o il suo sesso?

Ad oggi la copertura mediatica che hanno gli sport maschili non è nemmeno comparabile a quella riservata alle controparti femminili. Basti solo pensare al cavallo di battaglia dello sport italiano: il calcio. Ma pensiamo anche solamente al fatto che i maschi vengono classificati come agonisti, mentre le femmine come dilettanti: ciò impone un compenso di tipo molto diverso, molte calciatrici debbono svolgere altri lavori per potersi permettere di giocare nella propria squadra, anche in Serie A. Non fermiamoci al termine in sé, pensate anche a tutte le conseguenze che può avere una differenza del genere, non sono banali, c’è tutto in un unico piccolo termine: ad un uomo è riconosciuta la capacità di essere competitivo, ad una donna no.

Come parliamo di calcio, parliamo di pallavolo, di scherma, di boxe, di tennis, di basket. Non è uno solo lo scenario a cui assistiamo che ci rende diverse in quanto donne, ma lo siamo per un sistema intero che ci vuole sottomesse, ancora adesso. Anche se oggi ci definiamo all’avanguardia, abbiamo ancora tanta strada da fare, su noi stessi e sul nostro mondo. La superficialità del mettere in dubbio la sessualità di una persona che fa uno sport tradizionalmente accostato all’altro sesso, dove la mettiamo? Se un uomo danza dove sta scritto che è necessariamente gay? O se una donna gioca a basket dove sta scritto che necessariamente è lesbica? Queste sono le discriminazioni che ci rendono ancora piccoli e meschini: l’incapacità di lasciar fare agli altri ciò che li rende felici, l’incapacità di accettare l’altro, di vederlo oltre l’esteriorità, di vederlo come umano e nostro pari.

Che poi, parliamoci chiaro: quanto bello è il sorriso di una persona quando fa quello che più le piace? E cosa ci impedisce di lasciar vivere questo sorriso a tutte le persone? A tutte le donne, ragazze, bambine, madri, sorelle, figlie?

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