Di traduzioni, tradizioni e tradimenti
“Quando Mr. Bilbo Borsini di Fine Borsa annunciò che si sarebbe a breve messo a celebrare il suo centodecimo-primo compleanno con una festa di speciale magnificenza, ci fu molto parlare ed eccitazione a Hobbiton. Bilbo era molto ricco e molto peculiare, ed era stato la meraviglia della Contea per sessant’anni, sempre fin dalla sua rimarchevole scomparsa e inaspettato ritorno. Le ricchezze che egli aveva portato indietro dai suoi viaggi erano ora divenute una locale leggenda, ed era popolarmente creduto, qualunque cosa il vecchio popolo potesse dire, che la Collina a Fine Borsa fosse piena di tunnel farciti con tesoro”.
Salve a tutti.
Una breve rassicurazione: non sono diventato matto. Non più del solito.
Quella che avete appena letto è una mia traduzione letterale dell’incipit de “La Compagnia dell’Anello”. Un adattamento (giacché ha sempre poco senso parlare di “traduzione pura”) che si discosta il meno possibile dalla lettera del testo originale. Quelle parole ha scritto il Professor Tolkien, quelle parole ho tradotto.
Avrete già capito in quale Voce di Corridoio ci stiamo tuffando questo mese. Speriamo di saperci destreggiare con elfica perizia tra i flutti delle polemiche che già imperversano sull’argomento.
Per chi non sapesse di cosa parliamo, un breve riassunto.
È uscita da pochissimo la nuova, attesa e già aspramente dibattuta traduzione de “La Compagnia Dell’Anello”, curata nientemeno che da uno dei più raffinati, apprezzabili e apprezzati intellettuali della scena italiana: Ottavio Fatica.
Questa nuova traduzione è stata al centro di un uragano mediatico già prima della pubblicazione dei primi stralci, complici anche alcune dichiarazioni dello stesso Fatica, che della precedente traduzione, disse «Fu un’avventura improvvisata» e che anche nella sua forma riveduta e corretta, presenta «una media di cinquecento errori a pagina per millecinquecento pagine».
Mi permetto sommessamente di ricordare che, ai tempi della prima edizione italiana de “La Compagnia dell’Anello”, edita da Astrolabio, ben due traduttori furono rifiutati da Tolkien. Il Professore era notoriamente un pedante linguista nonché buon conoscitore e amante della lingua italiana. Per maggiore certezza nella supervisione dell’edizione italiana, si affidò anche a un collega di Oxford.
Entrambi i traduttori di Astrolabio fallirono la prova di traduzione, che consisteva in una parte del primo capitolo e in un’appendice densa di nomi, la cui resa in lingue diverse dall’inglese era particolarmente importante per il professor Tolkien.
Laddove due esperti traduttori avevano fallito, riuscì la giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca, proponendo una traduzione che, pur nella sua ingenuità, aveva convinto l’inflessibile J.R.R.
Il lavoro della Alliata, negli anni, fu soggetto a importanti e sostanziali revisioni, prima ad opera di Quirino Principe (per il cui intervento, Tolkien scrive di aver ricevuto sincere felicitazioni da un collega), e successivamente della Società Tolkieniana Italiana.
Questa digressione storica ci serve per far presente che forse, liquidare come “avventura improvvisata” la prima traduzione, rischia di suonare leggermente pretestuoso.
Ma torniamo a parlare di questa “nuova” Compagnia dell’Anello.
Ottavio Fatica ha argomentato approfonditamente le scelte operate nel riproporre il mondo di Tolkien ai lettori italiani. Il lavoro filologico, filosofico e linguistico compiuto è a dir poco impressionante: nulla è lasciato al caso.
Le pochissime libertà che l’illustre traduttore si è concesso sono state anch’esse scrupolosamente pensate e centellinate solo laddove erano indispensabili per non svilire il valore letterario dell’opera originale.
Ma qui mi sorge un dubbio.
Se la filologicità e la pedissequa attinenza alla lettera originale devono essere il metro di giudizio, allora la traduzione con la quale ho aperto questo articolo dovrebbe essere più valida di quella di Fatica.
Vi prego di confrontarla con il testo di Tolkien. È quello. Parola per parola.
Questo la rende la miglior traduzione possibile?
Non direi.
Perché è vero quel che si dice: tradurre è sempre un po’ tradire. Tradire la letteralità in favore della letterarietà. È il motivo per cui, una volta, le traduzioni dei grandi poeti classici e stranieri venivano affidate a grandi poeti italiani del calibro di Salvatore Quasimodo, che spesso ne stravolgevano la forma per restituirne la sostanza e la grandezza.
O volando molto più basso, è lo stesso, fin troppo citato principio per il quale l’adattamento italiano di “Frankenstein Junior” funziona così bene.
«Lupo mannaro!»
«Lì lupo. Lì castello».
Non è che faccia ridere granché, vero?
«Lupo ulula!»
«Lupo ululà. Castello ululì».
Meglio.
Questa ossessione del «Ma in originale dicono un’altra cosa!» sta soffocando anche il mio mestiere (il doppiaggio) come un boa intorno a un cucciolo di cinghiale.
Lo sappiamo perfettamente che in originale dicono un’altra cosa. È un’altra lingua. Se dicessero la stessa cosa, sarebbe la nostra lingua, e non ci sarebbe bisogno di adattarla.
Adattarla, badate bene.
Non tradurla.
Con questo voglio forse dire che Ottavio Fatica ha tradotto e non adattato?
Non scherziamo. Neanche assumendo dosi cospicue di stupefacenti arriverei a presumere di poter insegnare il mestiere a Ottavio Fatica. Stiamo parlando (è bene non dimenticarlo) di un grandissimo letterato, filologo e intellettuale, uno che “mastica” grandi traduzioni da una vita.
Mi limito a rilevare che Ottavio Fatica ha operato delle scelte di adattamento. Ponderatissime, attentissime e personalissime. Scelte che, sempre a livello del tutto personale, non mi trovano d’accordo. E visto che, a quanto pare, se non si ama questa nuova traduzione, si è automaticamente classificati come “nerd talebani”, vorrei argomentare.
Vediamo insieme un paio di highlights.
“Samwise” che, da “Samvise”, è diventato “Samplicio”.
Nell’Appendice F de “Il Ritorno del Re”, Tolkien dice che i nomi Hobbit che lui avrebbe “tradotto” dal Libro Rosso erano originariamente diversi. L’autore spiega che
«Alle bambine, gli Hobbit erano soliti dare nomi di fiori o di gemme. Ai maschi, invece, nomi privi del tutto di significato».
E specificatamente riguardo a Sam, approfondisce:
«Ma i veri nomi di Sam e di suo padre Ham erano Ban e Ran, in quanto troncamenti di Banazîr e Ranugad, che in origine erano soprannomi significanti “semplicione” e “casalingo”, ed erano poi caduti in disuso rimanendo soltanto come nomi propri in alcune famiglie».
In base a questo, dal momento che Tolkien avrebbe “dedotto” il nome Samwise partendo dall’anglosassone samvìs (che significa “mezzo saggio”), Ottavio Fatica ha scelto di trasformare Samvise in Samplicio, come richiamo al nome Simplicio.
È una scelta personale.
Sempre in ambito strettamente personale, osservo che il nome Simplicio richiama a una semplicità d’animo e di vita, più che di mente (come invece lascia supporre il termine “semplicione”). E aggiungo che, nelle frasi «[…] erano poi caduti in disuso rimanendo solo come nomi propri» e «Ai maschi, invece, nomi privi del tutto di significato», Tolkien sottolinea con decisione che per quei nomi potrebbe essere più sensata una trasposizione fonetica che una semantica (visto che, lo ripete due volte, il significato si era comunque smarrito).
L’inglese permette poi una creatività nel comporre vocaboli e nomi propri, che all’italiano manca. Cambiare lettere ai nomi propri per adattarli al significato, anche in un contesto fantastico, suona strano, buffo. Per questo motivo, a me personalmente, l’idea di trasformare “Samvise” in “Samplicio” non piace.
La seconda sulla quale vorrei riflettere è la parola “Ranger”, che nella vecchia traduzione era “Ramingo” e che ora è diventata “Forestale”, dando spunto a una serie di meme con protagonista Terence Hill.
Fughiamo subito ogni dubbio. La traduzione “Forestale” è ineccepibile. Un ranger è un guardaboschi, un guardaparco, insomma… Una guardia forestale. O più brevemente, per l’appunto, “un forestale”.
Ancora una volta, scelta ponderata e personale del professor Fatica.
Mi permetto di osservare, però, che “Ranger” ha uno spettro semantico considerevolmente più ampio di “forestale”.
Il secondo termine ci evoca immediatamente un ufficiale su una jeep intento a sorvegliare parchi naturali (e a multare i cacciatori di Frodo. Badum Tssss!);
il primo, letteralmente, è “a person who ranges”, laddove il verbo “to range” significa “cambiare, variare, procedere senza un itinerario, vagare”.
Errare.
«Non tutto quel che è oro brilla,
Né gli Erranti sono perduti»
Ricordate?
In questo senso, trovo che la vecchia traduzione “Ramingo” ricoprisse meglio e in modo più evocativo i significati insiti in “Ranger”.
Ci sono moltissime altre cose che stanno facendo discutere.
“Brandybuck” che diventa “Brandaino” perché “Buck”, tra le altre cose, significa “Daino”;
“The Prancing Pony” che diventa “Il Cavallino Inalberato” invece del vecchio “Puledro Impennato” (scelta condivisibile per “Pony-Cavallino”, ma “Impennato-Inalberato”, anziché fumose atmosfere da locanda, ci fa immaginare affannose ricerche sul dizionario dei sinonimi e dei contrari).
Insomma, questa nuova traduzione, se da un lato presenta spunti di riflessione linguistica e filologica assolutamente interessanti, dall’altro ci convince poco laddove si ravvisa una studiata ricerca del diverso, del cambiamento fine a se stesso.
Non mi dilungherò sulla forma dei periodi che trovo (personalmente) molto più involuti della traduzione precedente: qui siamo davvero nel campo del gusto.
Ma forse l’intera questione orbita abbastanza vicino al fatidico “de gustibus non est disputandum”.
Ecco, forse è proprio questo a farmi risultare così indigesta l’attentissima opera di Ottavio Fatica: poteva esistere un modo migliore di proporla, anziché presentare il lavoro dicendo (in soldoni) «Avete letto immondizia per sessant’anni: adesso vi facciamo leggere noi il vero “Signore degli Anelli”».
Il vero “Signore degli Anelli” è scritto in un meraviglioso inglese per mano del professor John Ronald Reuel Tolkien.
Punto.
Su questo, spero che tanto i sostenitori quanto i detrattori della nuova traduzione non abbiano Niente Da Dire.
Novanta minuti di applausi.