Io e l’uragano Murray

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Io e l’uragano Murray

Chi ha seguito le notizie dell’ultima settimana (o più probabilmente, chiunque non viva su un atollo deserto in mezzo al Pacifico), sa che la voce di corridoio che circolava ormai da sei mesi si è trasformata in realtà: Bill Murray, the Murraycane, ha ritirato il premio alla carriera in occasione della Festa del Cinema di Roma.

Ed era tutt’altro che scontato, che questa Voce si avverasse, perché il buon vecchio Bill è noto per una certa imprevedibilità – per usare un eufemismo – Lo dimostra la disinvoltura con la quale il nostro ha disertato il primo incontro con i giornalisti facendosi trovare ancora in pigiama nella sua stanza d’albergo.

Ma è successo: il Murraycane si è abbattuto sulla capitale, e il sottoscritto, cresciuto a pane e Ghostbusters, non poteva non essere presente.

Si dice che non bisognerebbe mai incontrare i propri idoli perché quanto più un amore è grande, tanto più è facile ferirlo e trasformarlo in delusione e risentimento. Bill è stato grande anche in questo, soprattutto con noi fan di Ghostbusters: ci ha addestratiLo abbiamo amato e venerato per il suo Peter Venkman; lo abbiamo odiato per non aver mai voluto girare “Ghostbusters 3”; lo abbiamo idolatrato perché la sua follia e il suo estro ci hanno mostrato che lui era davvero Peter Venkman; lo abbiamo detestato per aver preso parte a un film che si chiamava “Ghostbusters” ma che in realtà era come quelle scarpe che, arrivato a casa, ti accorgi che sulla scatola c’è scritto “Badibas”… 

Non si può non amare Bill Murray, ma lo si ama come quello zio un po’ matto che ti fa sempre divertire, ti insegna un sacco di cose, ci tiene a passare del tempo con te, a Natale ti porta dei regali stupendi, poi magari alza un po’ il gomito e se non stai attento se ne esce con qualche battutaccia acida su tua mamma. Ci ha insegnato a volergli bene ma a non darlo mai per scontato, ad averne anche un po’ paura. Per questo ho deciso di correre il rischio: ero pronto.

Mi stringerà la mano? Mi sfotterà? Mi farà un autografo? Mi mollerà un destro in faccia? Mi abbraccerà? Tutto può essere! È Bill Murray!

La cosa sulla quale fatico a sorvolare è la brutta fine della sua amicizia con il compianto Harold Ramis, che tanto dolore ha causato ad Harold e che si è riconciliata troppo, troppo tardi. Tra le numerose follie di Bill, questa è la sola che non gli ho mai perdonato.

E poi, dopo tre ore di attesa, il Murraycane è arrivato. L’abbiamo visto emergere dall’alto della sua considerevole statura insieme a Wes Anderson e Edward Norton, e tutto quello di cui ho scritto fin qui si è mescolato come i colori di una tavolozza messa in mano a un marmocchio bizzoso. I colori c’erano ancora tutti, ma non si capiva più dove finisse uno e iniziasse l’altro, e quel pastrocchio di pura adrenalina mi ha imbrattato completamente, trasformando la mia faccia in quella di un bambino che, a sei anni, scopre di colpo che il dottor Venkman dei cartoni animati esiste nel mondo reale.

È lui. Il viso è segnato da anni che non sono trascorsi con gentilezza, ma la luce in fondo agli occhi, il ghigno furbo, le movenze fluide e disinvolte da trentacinquenne figo, non lasciano dubbi. È Bill. E sta avanzando verso di me. Non firma autografi, quindi capisco di aver portato inutilmente la mia copia di “Ghostbusters – The Ultimate Visual History” e un pennarello argentato acquistato ad hoc, ma stringe tutte le mani, saluta tutti quelli che lo raggiungono. È a cinque metri. Tre. Un metro e mezzo. Tendo la mano!

«Love ya», sghignazza col suo vocione.

«Love ya too, Bill», rispondo io. «Sei una leggenda vivente. Uno che, nelle vette più alte come negli abissi più sordidi, non ha mai avuto problemi a essere se stesso al 100%, a giocare solo ed esclusivamente secondo le proprie regole. Mi hai insegnato molto più di quanto saprai mai e infinitamente più di quanto mai ti importerà, ma io, che ricordo ancora un sogno che feci da bambino, nel quale tu mi regalavi un fucile protonico e mi spiegavi come usarlo, te ne sono grato. In questo pazzo, avido, sporco mondo nel quale viviamo, è bello pensare che, se non altro, viviamo in un mondo con Bill Murray».

Per uno strano fenomeno di rifrazione acustica, quello che mi è uscito dalle labbra è stato solo 

«Thank you, Bill».

Non è vero che non bisognerebbe mai incontrare i propri miti.

O magari sì. Ma io ho incontrato Bill Murray. Gli ho stretto la mano. Mi sono indebitamente appropriato di un suo generico “Love ya”.

Valeva la pena correre il rischio.

 

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