Il linguaggio della differenza
Nel 2007, quando sono atterrata in Giappone per la prima volta, ero solo un chicco di riso, non ancora un origini completo, avevo viaggiato poco poco in vita mia e visto poco del mondo fuori dai miei confini e sicuramente non pensavo ai rifiuti anche se già volevo fare le differenza.
Così, quando la madre della mia host family mi detto che dovevo togliere il rivestimento di carta dal mio vasetto di yogurt di plastica… Sono caduta dalle nuvole.
Venivo da una realtà in cui si buttava praticamente ancora tutto insieme e il concetto di “raccolta differenziata ” era davvero qualcosa di relativo.
E sicuramente quasi nessuno in Italia se ne occupava con una tale dedizione.
Mc Donald’s a Tokyo divideva già il ghiaccio e i liquidi dalla plastica, ben prima che qui anche solo lo si prendesse in considerazione (io l’ho visto accadere in Italia forse 4 o 5 anni fa, correggetemi se sbaglio, quasi 10 anni dopo il Giappone).
La cura che mettono nella divisione dei materiali da buttare è pari a quella che applicano a quasi tutti gli ambiti della loro vita.
Si comincia dalla scuola
In una delle prime lezioni del primo anno di giapponese, all’università, Hakuta sensei (“sensei” come insegnante, non riesco a chiamarla in nessun altro modo), la nostra madrelingua, ci insegnò i termini che indicavano i rifiuti combustibili e quelli che non lo erano. Ricordo chiaramente che al tempo mi chiesi per quale ragione e lo insegnasse così presto.
Ora lo so.
Così come so perché ci ha insegnato come si dicesse “balena” , ma questa è un’altra storia.
Giusto l’altro giorno ero in questo hotel di Kyoto in cui, in ogni stanza, ci sono 2 cestini, uno per i rifiuti combustibili, uno per la plastica e le lattine.
Sono rimasta una decina di minuti a osservarli chiedendomi: ” Ok, ma se volessi buttare qualcosa che non rientra nelle due categorie, come faccio?”.
Loro sono così, i Giapponesi.
Ligi nella raccolta differenziata quasi fino all’ossessione, ma poi pronti a impacchettarti ogni acquisto con 2 o 3 strati di carta, scotch e sacchetti di plastica per ogni cosa.
Non importa che con un’azione ne vanifichino un’altra.
Comunque sia da loro ho imparato a osservare il prodotto di cui mi voglio liberare e a separare le parti con estrema cura, gettando tutto nell’apposito cestino.
E ho sentito che si stanno accorgendo anche loro di usare troppa plastica inutilmente, condannando il Pianeta, più di quanto non sia già stato condannato dalla frivolezza di ognuno di noi. Cercano di diminuire l’uso dei sacchetti nei supermercati aperti 24/7 e di aggiustare i numeri per gli onigiri impacchettati (guardate un po’ il caso). Poco, certo, ma almeno è qualcosa.
Ormai non basta più che ci si muova a piccoli passi verso la consapevolezza, siamo arrivati ad un punto in cui dobbiamo correre al massimo della velocità verso un consumo e riciclo estremamente oculato.
Praticamente ossessivo.
Love, Monigiri
Per me la massima espressione della loro contraddizione in questo ambito è data dai cartelli che si trovano spesso fuori dai konbini (ma non solo) dove ti invitano ad aiutarli non prendendo il sacchetto di plastica alle casse (il レジ袋 per intenderci), quando basterebbe che la smettessero di darti d’ufficio il sacchetto anche quando compri un singolo Onigiri, per rimanere in tema.
Però trovo curioso il fatto che invece, e per fortuna, alle casse automatiche di molti supermercati ci sia l’opzione “my bag” (マイバッグ) per poter usare le borse riutilizzabili.
Vuol dire che l’idea c’è, manca l’elasticità di lasciare che sia il cliente a chiedere la borsa, se la vuole.
Il tutto però mi ha regalato splendide scene di imbarazzi e fraintendimenti alle casse di vari posti alla ricerca di borse di stoffa o nei vani tentativi di non farmi impacchettare il pacchetto già impacchettato. Quindi, da una parte, bene così! hahahah