“Children of Men” o l’arte di autoassolversi

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“Children of Men” o l’arte di autoassolversi

Rivedere nel 2019 un film che, nel 2006, parlava di futuro possibile e/o temibile rischia sempre di essere una delusione. Chi, come noi, attendeva il 2015 per schizzare a tutta birra sui VoloPattini come quello utilizzato da Marty McFly in “Ritorno al Futuro Parte II” si è dovuto arrendere al fatto che tale desiderio non si sarebbe concretizzato ma immaginiamo sia andata peggio a chi, negli anni 70, attendeva il 1999 per trasferirsi sulla base lunare Alpha!

Nel caso che affronteremo oggi, però, questo genere di delusione non può proprio manifestarsi perché stiamo parlando del mondo abbandonato a se stesso di “Children of Men” di Alfonso Cuarón e le similitudini con la nostra quotidianità rimangono ben forti. Rarissimo caso di film nettamente superiore al libro dal quale è tratto (il modesto romanzo di P.D. James) “Children of Men” ha rappresentato la conferma delle doti del regista messicano Alfonso Cuarón anche per quel pubblico generalista che non aveva seguito i suoi exploit precedenti e che non aveva fatto caso al nome di chi, dietro alla macchina da presa, aveva dato una bella scossa al franchise di Harry Potter con “Il Prigioniero di Azkaban”.

La trama è riassumibile in poche righe: immaginate un mondo nel quale non nascano più bambini. Un mondo condannato alla morte e, quindi, privo di speranza per il futuro. In un simile contesto, il film segue le vicissitudini di un uomo (Clive Owen) che decide di aiutare la ex-moglie in una missione di fondamentale importanza. Unitosi al gruppo terroristico dei “Pesci”, dovrà contribuire alla protezione di una giovane immigrata rimasta miracolosamente incinta e traghettarla oltre i confini della ormai iper-oppressiva Gran Bretagna.
Children of Men” è rimasto impresso nella nostra memoria cinefila per lo sfoggio di mostruosa perizia tecnica. Piani sequenza interminabili, movimenti di macchina magistrali e la capacità di inserire invisibili effetti visivi per amplificare l’impatto delle immagini lo hanno reso un film premiatissimo in quell’ambito e più volte imitato. Eppure, il motivo per cui ne parliamo questo mese su “Niente da Dire” è un dettaglio che resta sovente sullo sfondo di numerose scene ma che assume un significato maggiore proprio osservandolo a distanza di tredici anni: la spazzatura.

La Londra nella quale si muove il protagonista di questa storia è sepolta dall’immondizia e in preda al degrado. Cumuli di rifiuti occupano lo sfondo di moltissime scene e incorniciano quasi tutte le ambientazioni cittadine in maniera tanto sottile quanto efficace. I cittadini non ci badano nemmeno e attraversano i quartieri schivando i cumuli maleodoranti che si impossessano di tutto lo spazio possibile. Un’atmosfera talmente squallida da enfatizzare ulteriormente il tono plumbeo della vicenda e tutto merito di quel dettaglio così bene inserito.

Ma perché tutta questa enfasi sull’inquinamento generato dall’uomo? Beh, per un motivo tanto sottile ma molto efficace: le persone hanno smesso di badare ai rifiuti e alle condizioni delle città, dei Paesi e del Pianeta perché sanno che, dopo di loro, quei luoghi non ospiteranno più nessuno. La consapevolezza di non dover lasciare nulla ai propri figli, il desiderio di concedere loro in eredità un mondo migliore ormai in frantumi spinge tutti a divenire incuranti delle conseguenze di un simile degrado. A che può mai servire un mondo pulito se nessuno lo abiterà? La speranza di un futuro più roseo è stata spazzata via e, con essa, la volontà di crederci.

Rivedendo questa pellicola ora è inevitabile constatare come le immagini del film facciano ormai parte della nostra quotidianità e nessuno sembri preoccuparsene, esattamente come accadeva agli abitanti di quel futuro distopico. Siamo circondati da segnali sempre più palesi di una rapida devastazione incombente e inarrestabile ma la cosa non sembra atterrirci quanto dovrebbe. Eppure abbiamo dei figli, dovremmo vivere con la consapevolezza di stare distruggendo il mondo destinato a loro!

Il sospetto a questo punto sorge spontaneo: e se quella dei protagonisti di quel film fosse solo una scusa? Una forma di autoassoluzione di fronte a una situazione che sanno di non poter/voler risolvere? “Stiamo seppellendo di immondizia il nostro mondo e non abbiamo le capacità e la volontà di fermare tutto questo… ma tanto non nascono più bambini!! Questo ci libera da ogni forma di responsabilità verso le prossime generazioni perché non ce ne saranno più! È fatta, possiamo smetterla di preoccuparci!
Children of Men” non racconta la storia di un popolo che si è arreso. Da questo punto di vista, “Children of Men” racconta la storia di un popolo che si è trovato fra le mani la scusa perfetta per poterlo fare.

 

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